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Natalità, gli immigrati non ci salveranno dalle culle vuote

Fausto Carioti
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Quando si parla di natalità è facile tornare a quella frase attribuita ad Alcide De Gasperi: «Un politico pensa alle prossime elezioni, uno statista pensa alla prossima generazione» (a dirla, in realtà, fu il teologo americano James Freeman Clarke, ma poco cambia: il fondatore della Dc l’avrebbe sottoscritta). Nel deserto italiano delle culle (1,25 figli per donna, per mantenere la popolazione in equilibrio ne servirebbero 2) l’unica buona notizia è che al governo c’è qualcuno che, pur essendo un politico, sta provando a fare lo statista. Significa spendere soldi – e ne serviranno parecchi, se si vorrà ottenere qualcosa – per un progetto che non può regalare consenso immediato e nemmeno a medio termine. Una scelta ai confini dell’autolesionismo, per chi ogni giorno è giudicato sulla base dei sondaggi e tra un anno dovrà misurarsi con le elezioni europee più importanti da quando esiste il parlamento di Strasburgo.

 


L’interesse egoistico consiglia infatti di spendere il denaro pubblico nell’altro modo, quello usato dai Cinque Stelle col reddito di cittadinanza: una pioggia di soldi sulle categorie e le regioni alle quali si chiede sostegno. Farsi votare da Tizio coi soldi di Caio è un’abitudine antica quanto la democrazia: se Giuseppe Conte e il M5S sono ancora a galla, col loro 15%, è perché milioni di italiani che vogliono continuare ad intascare la prebenda sanno di poter contare sul loro impegno. L’orizzonte del governo è completamente diverso. Lo ha indicato ieri Giancarlo Giorgetti: «Da qui al 2042, con gli attuali tassi di fecondità, il nostro Paese rischia di perdere per strada percentuali del Pil impressionanti, pari al 18%». Per questo, ha spiegato il ministro dell’Economia, «la vera riforma previdenziale è una riforma che sostenga la natalità, altrimenti il sistema non regge».

 

 


C’è una logica economica, insomma, dietro alle detrazioni fiscali da 10mila euro per figlio e agli altri provvedimenti del “programma natalità” che il governo ha in cantiere, ma non riguarda le nostre vite di oggi. L’erosione del benessere è lenta ma costante, si misura con la distanza crescente tra il valore delle pensioni pagate dallo Stato e quello dei contributi previdenziali versati dai lavoratori: nel 2000 era di 7 miliardi di euro, nel 2021 è arrivata a 31 miliardi. Questa differenza può essere colmata solo dalla fiscalità generale, cioè dall’Irpef e dalle altre imposte, o da nuovo debito. Soldi tolti alla sanità, alle strade, alla sicurezza, ai consumi dei contribuenti. Per invertire questo processo bisogna quindi investire ora e nei prossimi anni, e i risultati si toccheranno con mano tra qualche decennio, quando Giorgetti, Giorgia Meloni ed Eugenia Roccella faranno chissà cosa e parecchi di noi nemmeno saranno più qui. Un lavoro per le prossime generazioni, appunto. Un’alternativa, però, non esiste.


O meglio, c’è solo nella propaganda di una parte della sinistra: si importano più immigrati, allo stesso modo in cui si può importare un qualunque macchinario necessario alla produzione, si privano i Paesi più poveri di quelle che dovrebbero essere le loro energie migliori (tutto molto umanitario, come si vede) e si finge che il nostro problema possa essere risolto in questo modo, aumentando ogni anno la quota di braccia fatte arrivare dall’estero. Ma è una finzione, perché – è così ovunque, lo dimostrano studi solidi – gli immigrati uniformano i loro comportamenti, anche riproduttivi, a quelli dei Paesi in cui si trasferiscono. Senza un cambiamento generalizzato delle abitudini, quindi, anche loro finirebbero per aumentare il peso dei pensionati sul resto della popolazione. Certo, raccontare agli elettori che i soldi possono essere spesi in altro modo, perché la soluzione al problema demografico è nei barconi, è molto più facile. Non è un caso che nel programma con cui Elly Schlein ha vinto le primarie del Pd la parola «natalità» appaia una volta sola: per contestare «la visione patriarcale della destra oggi al governo, che ha rinominato il ministero, facendo precedere le pari opportunità da famiglia e natalità». Troppa importanza ai figli e alla procreazione, insomma: i problemi veri sono altri.

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