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Luigi Di Gregorio, la dritta: "Serve una war room di governo permanente"

Daniele Priori
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Ai tempi del boom delle serie tv, una quindicina di anni fa, le singole puntate duravano anche un’ora. Le stagioni, specie nei casi più riusciti, superavano sempre la mezza dozzina. I protagonisti? Sempre gli stessi, con gli attori che invecchiavano insieme al loro personaggio. Oggi, con l’avvento del modello Netflix, le stagioni sono sempre meno, le puntate durano sempre meno e i volti cambiano in continuazione. È un meccanismo psico-sociale basato sul feticismo dell’immediatezza. E si applica a qualsiasi cosa. Leggendo l’ultimo lavoro di Luigi Di Gregorio, War Room - Attori, strutture e processi della politica in campagna permanente (Rubbettino, pp. 384, euro 24, in uscita il 15 marzo), le parole chiave che il docente di Comunicazione Pubblica utilizza per descrivere la sua materia d'insegnamento si sovrappongono quasi perfettamente a quelle del marketing più spietato. Come se votare e comprare un prodotto fossero ormai la stessa cosa.

Di Gregorio, è così?
«C’è sicuramente una tendenza da parte dei cittadini a diventare consumatori tout court. Di carattere prepolitico, sociale, tipico dell'individualizzazione, del narcisismo, della gratificazione immediata e del presentismo in cui viviamo. Basta vedere il comportamento stesso dell’elettore e la sua volatilità. Non cerca un rappresentante, cerca la novità a tutti i costi. Certo, ci sono delle differenze, ma sono sempre meno. Il ricorso al marketing all’epoca dei partiti di massa non esisteva proprio, oggi alla base di tutto c’è il “brand”...».

E il leader politico è diventato un influencer...
«È diventato egli stesso “brand”. Quando il partito fidelizzava l’elettore il partito puntava sul marchio. Basta vedere i manifesti elettorali della Prima Repubblica, c’erano simboli, grafiche e concetti ideologici “alti”. Oggi ci sono slogan, nomi, volti dei leader.
La comunicazione politica è “visual” esattamente come i social più in voga, l’appartenenza ideologica stabile non esiste più e la soglia dell’attenzione è minore di quella di un pesce rosso...».

Anche per questo nel suo decalogo indica come una delle regole auree la ripetizione, quasi ossessiva, degli stessi slogan?
«Sì, la nostra memoria a breve termine è sempre più breve e tutto ciò che memorizziamo si basa sullo “storytelling”, il meccanismo di narrazione accattivante e quindi più assimilabile, e sulla ripetizione continua».

Come il pericolo del ritorno del fascismo?
«Anche, certo. Per quanto la scelta del tema sia più basata su una necessità di tornare nella propria comfort zone. Senza idee programmatiche nuove ci si deve rifugiare in un evergreen».

Ma se i temi chiave sono sempre gli stessi, e spesso difficili da risolvere, non si rischia di produrre delusione una volta arrivati al governo?
«È il motivo per cui l’andamento dei consensi verso un leader è una sinusoide. E più si esagera con le promesse e le aspettative e più accorcia la sua durata. Per definizione ciò che fa notizia è ciò che non funziona. Quindi fare l’opposizione è più semplice. Questo si aggiunge al meccanismo Netflix per cui l’elettore si annoia presto. Del resto, la persona annoia prima dell’ideologia».

La necessità di “parlare per immagini” ha reso la politica l’arte dello Scarabeo. Spesso i politici usano espressioni diverse per parlare della stessa cosa. Ci fa qualche esempio?
«Il “Termovalorizzatore” si può chiamare “inceneritore”, l’utero in affitto diventa “maternità surrogata”, i Centro di Permanenza Temporanea per i migranti sono diventati Centri per l’Identificazione ed Espulsione e ora Centri per il Rimpatrio...».

Per descrivere il mestiere del politico spiega che dovrebbe avere capacità di "elaborare" contenuti, "generare" consenso, "ripetere" slogan, "resistere" allo stress". È ormai roba per intelligenze artificiali?
«La politica a certi livelli è sempre stata un’attività logorante. Oggi significa davvero non staccare mai. Non è solo lusso, privilegi e benefici come predicava l’antipolitica. L’IA in effetti è uno strumento che si usa negli Stati Uniti, ancora relativamente poco, ma diventerà preponderante: nella creazione di contenuti per la campagna elettorale, anche fake, nelle risposte rapide agli elettori, nell’elaborazione dati. Ma la politica è anche rapporti umani, capacità di relazionarsi e di leggere gli altri. Questo l'IA non lo sa fare».

Le regole auree di questo tipo di comunicazione politica sono incentrate sulla “campagna elettorale permanente”. Ma qual è la regola aurea per il “mantenimento del consenso permanente”?
«È molto complicato. Le regole che mi vengono in mente sono un paio: limitare le esposizioni pubbliche e sapersi reinventare. Essere onnipresente non solo annoia ma rende più facile cadere in contraddizione e quindi deludere. Dosare le uscite pubbliche, magari con effetti sorpresa come sapeva fare bene Berlusconi che è stato al top per trent’anni, facilita le cose e addirittura può rendere uno slogan permanente come quello di una pubblicità (“aboliremo l'Ici”, NdR) e le giravolte persino vantaggiose».

Cambiare leader, invece?
«Ancora più difficile. Ma creare dei sottotetti in grado di permettere agli elettori di restare ancorati a un partito anche senza il leader principale è di certo cruciale. Di tutti questi aspetti messi insieme dovrebbe occuparsi la grande assente della politica italiana...»

Quale?
«L’abitudine dei partiti a creare una “War Room” di governo permanente. Un team di persone che dal giorno dopo la prima vittoria elettorale inizia a lavorare su quella successiva, con l’utilizzo metodico di sondaggi, agenti di comunicazione, tecniche di gestione delle crisi. Negli Stati Uniti è la base. Da noi invece tutto questo non c’è. La nostra è una politica boomer».

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