George Soros, il piano sporco per un nuovo referendum sulla Brexit: democrazia calpestata?
Incredibile dictu, i perfettini inglesi - da tempi immemorabili convinti di essere i più bravi e più furbi, ineguagliabili detentori del verbo della democrazia liberale - si stanno mestamente accorgendo che qualcosa non quadra, che le certezze sbandano, che i traguardi ondeggiano. Fine psico-melodrammatica della loro proverbiale sicumera. Il terreno che frana sotto i piedi, la casa che brucia e i pompieri che non arrivano. È l'effetto Brexit, o meglio, della Brexit tradita, quella cerchiobottista escogitata - dopo mille convulsioni e piroette - dall'ineffabile Theresa May (ascesa a Downing Street, poveri loro, come una novella Margareth Thatcher), la tremebonda premier tory, che quell'orco di Donald Trump ha meritatamente ridotto a un pizzico. Già perché il divorzio dal Continente - dopo anni e anni di evidente insofferenza e di piede in due staffe, mantenendo la loro immarcescibile sterlina e la loro bislacca guida a sinistra - i sudditi di Sua Maestà lo avevano scelto e votato appena due anni fa, ma presto - inebetiti dalla martellante propaganda dell'Internazionale del «politically correct» e dal boicottaggio delle elites finanziarie - avevano cominciato a dubitare, ad annaspare, a pentirsi, insomma ad avere una fifa blu. «E se invece di liberarci dei lacci e lacciuoli della mediocre e sciocca Europa dei burocrati, finissimo col perdere un mare di quattrini e la nostra florida economia scivolasse sul sentiero stretto di un' autarchia non più supportata da un Impero che non c'è più?». Leggi anche: George Soros? Fino a dove si spinge David Parenzo Il gusto amaro della paura, alimentato da sospette raffiche di devastanti studi e proiezioni di insigni istituti e università sui «disastri» del dopo-Brexit, ha fatto deragliare la politica britannica, sempre descritta come lucida, pragmatica e traboccante di buonsenso. A scorrere i giornali d'Oltremanica si incappa in diagnosi da brivido. Una democrazia che sta suicidandosi, un'agonia in «slow motion», talvolta - udite udite - persino un tributo alla nostra Italia (che hanno messo tanto alla berlina), riconoscendo al belpaese la capacità di gestire il caos riportandolo alla stabilità! I compassati e superboni dandy stanno mettendo in scena un clamoroso autodafè. Pur di incasinarsi l'esistenza, la vittoria referendaria dei brexiteers viene sporcata e messa in discussione dal deferimento all'autorità giudiziaria (condito da una sonora multa) al più importante comitato «pro-leave», reo - secondo l'accusa - di avere infranto la normativa sul finanziamento delle campagne elettorali. E - forse con lo zampino dell'onnipresente George Soros - la battaglia per ottenere un referendum 2.0, che cancelli gli esiti del primo a favore di un'inversione a U che riporti sulla breccia il «remain», investe in pieno - per la prima volta - lo slabbratissimo partito conservatore della pavida e indecifrabile May, che vorrebbe la botte piena e la moglie ubriaca. Una sua brillante ex-ministra - sacrificata in uno dei numerosi rimpasti del suo traballante governo, la 49enne Justine Greening, allieva dell'improvvido David Cameron e gay dichiarata, si scopre paladina dei benefici della permanenza nell'Europa (brexiteer fanatica non era stata mai) e lancia dall'interno la sua sfida, usando argomenti assai appetibili per i «remain» di sponda laburista, resuscitati dallo «stop and go» della premier ed eccitati dal ritorno a casa dell'ormai maturo enfant prodige Tony Blair, stufo di guadagnare con irritante facilità soldi a palate con le sue girovaganti conferenze e voglioso di rimettere i piedini nell'agone politico. Con il risultato che, se la crisi dell'esecutivo è dietro l'angolo, l'ipotesi di una seconda consultazione si fa concreta. Povera Inghilterra... di Giovanni Masotti