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Joe Biden, un falco americano a Pechino: l'ambasciatore? Una "dichiarazione di guerra" alla Cina

Marco Respinti
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Gli Stati Uniti alzano il tiro sulla Cina e il cecchino è il prossimo ambasciatore a Pechino. Mercoledì, deponendo per la conferma alla Commissione esteri del Senato di Washington, Nicholas Burns, scelto dal presidente Joe Biden in agosto dopo circa un anno di vacanza di quel seggio periglioso, ha scaricato tutta la sua sei-colpi. Senza mediazioni, ha sciorinato le parole tabù che mandano Pechino su tutte le furie: «genocidio nello Xinjiang», «abusi in Tibet», «soffocamento dell'autonomia e delle libertà di Hong Kong», «prepotenze contro Taiwan». Ora, Taiwan è un nodo cruciale e imbarazzante. Mentre sputava fuoco sul regime neo-post-nazional-comunista cinese, Burns ha infatti ribadito fedeltà a quella «One China policy» tanto cara a Pechino che tiene l'ex Formosa fuori dalle Nazioni Unite dal 1971 e che, in tesi, rende impossibile contestare le pretese avanzate sudi essa dal drago rosso, persino in caso di invasione. Ma contemporaneamente l'ambasciatore in pectore ha dimostrato altrettanta fedeltà al «Taiwan Relations Act», la legge varata dal 96esimo Congresso federale degli Stati Uniti nel 1979 che, per mantenere pace e stabilità nell'area indo-pacifica, autorizza ogni sorta di relazione fra i due Paesi, inclusa la fornitura di armi da Washington a Taipei.

 

 

 

Non solo. Nel confronto con i senatori seguito alla deposizione, Burns ha pure citato l'escalation nucleare e i nuovi sistemi per il trasporto di testate che la Cina sta sperimentando. Sono del resto di agosto i test del nuovo missile ipersonico capace di trasportare ordigni atomici che il Financial Times ha denunciato meno di una settimana fa e che Pechino nega, chiamandoli «esperimenti spaziali di routine». La regione minacciata dal regime cinese è peraltro vasta. Burns lo ha messo per iscritto: «Pechino ha aggredito l'India sul confine himalayano, il Vietnam, le Filippine, altri Paesi che si affacciano sul Mar cinese meridionale e a oriente il Giappone, e contro l'Australia e la Lituania ha lanciato una campagna d'intimidazioni». Quindi, ha spiegato il diplomatico nel dibattito, «il deterrente in grado di conservare la pace» nella zona «è il mantenimento delle postazioni militari che gli Stati Uniti hanno in Giappone, nella repubblica di Corea e nel primo fronte di isole della regione, ma questo anche fino alla base aerea Anderson a Guam».

Ovviamente la risposta di Pechino è arrivata puntuale e furiosa. Il portavoce del ministero cinese degli Esteri, Wang Wenbin, ha bollato come esagerati e infondati i giudizi di Burns, liquidando il crimine del secolo XXI, cioè il genocidio degli uiguri oramai riconosciuto da diversi parlamenti del mondo, come la «bugia del secolo» architettata da un pugno di persone fra politici americani e studiosi occidentali anticinesi, e ha definito Hong Kong e Taiwan semplici questioni di politica interna.

 

 

 

Classe 1956, nativo di Buffalo, nello Stato di New York, Nicholas Burns insegna Diplomazia e politica internazionale alla John F. Kennedy School of Government dell'Università Harvard. Sottosegretario per gli Affari politici del Dipartimento di Stato durante la presidenza di George W. Bush, è apprezzato anche dai Democratici. Quando Biden ha fatto il suo nome, il Global Times, cioè il portavoce della propaganda cinese all'estero, ha salutato la cosa con favore per bocca di Lu Xiang, ricercatore nell'Accademia cinese di scienze sociali di Pechino dove si occupa di Stati Uniti, che ha definito Burns un uomo equilibrato, ben diverso dall'«estremismo» dell'Amministrazione Trump. Anche i comunisti insomma sbagliano. Speriamo però che non sbaglino i senatori Repubblicani conservatori, Ted Cruz e Josh Hawley, che, avendo promesso di boicottare tutte le nomine di Biden al Dipartimento di Stato, sono adesso l'unico ostacolo all'arrivo del cecchino Burns a Pechino. 

 

 

 

 

 

 

 

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