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Black Mounatin, la marcia di 50 km nel regno dei lopardi: una prova di resistenza (senza alcun sentiero)

Andrea Cionci
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«Non salite su quella montagna: può succedere di tutto!"»: così ci aveva avvertito, nel suo inglese gutturale, la guida del villaggio di Namanga, in Kenya. Ma l'obiettivo della nostra spedizione sulla Black Mountain, massiccio di 2554 metri di fronte al Kilimangiaro, era stato già pianificato da mesi: percorrere per la prima volta la montagna da Nord a Sud, passando per quella vetta che, nel 1928, era stata raggiunta dall'esploratrice Vivienne de Watteville, figlia di un naturalista che studiava i leoni così da vicino che finì divorato. Nessuno, prima d'ora, aveva mai documentato l'intero crinale di 50 km, privo di qualsiasi sentiero: ci voleva la lucida temerarietà degli istruttori di sopravvivenza Daniele Dal Canto, Antonio Gebbia, Daniele Manno, Fabrizio Nannini per guidare un gruppo di sei survivalisti - compreso lo scrivente - già testati da spedizioni in Africa e sull'Himalaya. 

Problema chiave: l'autonomia d'acqua. Con alcuni litri nello zaino, l'equipaggiamento individuale raggiunge il peso di 23/25 kg, trasformando gli spallacci in corde di pianoforte. Il 23 novembre si parte con 40° dall'arida savana boscosa detta bush. Presto compaiono, inquietanti e numerose, le tracce dei leopardi che popolano la montagna, ma preoccupa di più l'arsura. Per fortuna, col salire dell'altitudine, cala la temperatura e inizia la giungla di montagna, dove bisogna osservare attentamente anche i rami coperti di muschio sui quali si appostano i felini. In teoria, potrebbero trasportare sull'albero un uomo di 100 kg, per poi mangiarlo con calma: non accade spesso. Il maggior timore viene dai bufali selvaggi: insieme agli ippopotami, sono i bestioni africani che mietono più vittime. Estremamente territoriali, soprattutto i maschi non si placano finché non spianano ogni intruso. Eppure solo grazie a questi bovidi, pesanti fino a 900 kg, possiamo trovare qualche percorso appena segnato nell'inferno verde: le loro tracce aprono dei mezzi varchi in un groviglio di arbusti spinosi che prosegue per km. È estenuante passare fra le ramaglie con gli zaini pesanti, falciando i rovi con i machete; la velocità media è di 700 m/h e questo ci costringe a marce forzate anche di 11 ore al giorno, senza soste, se non per mangiare una barretta. Le pendenze sono spesso del 60% e costringono a usare le mani per appoggiarsi o aggrapparsi agli alberi. L'acqua scarseggia, per fortuna un breve acquazzone ci porta a raccogliere, coi teli, un prezioso mezzo litro di pioggia, fresca e dolce come nettare. 

Alle 5 si prepara il bivacco, si tendono le amache coi teli impermeabili, si accende il fuoco e si circonda il perimetro con fili di avvisatori acustici. Su lunghi bastoni vengono innestati coltelli a punta di lancia e ci si alterna nei turni di guardia notturna. Oltre quel filo di nylon, nel buio scrutato dalle torce brillano occhi felini, urla il babbuino verde oliva, mentre i nostri compagni dormono raggomitolati nei sacchi a pelo che, a stento, difendono dall'escursione termica, fra i 45°e i 13°. Dopo tre giorni di marcia sul crinale, con gli occhi già pieni di panorami mozzafiato e precipizi, scopriamo una grotta piena di ossa di ungulati, tra cui spicca un enorme teschio di bufalo. È una tana di leopardo, ma nonostante il lugubre scenario siamo alle stelle: il terreno è fangoso e, scavando, raccogliamo acqua che, microfiltrata con le borracce Water to go, ci solleva finalmente dalla principale angoscia. Giunti finalmente sulla vetta brulla, da una macchia esce improvvisamente un enorme bufalo, che per fortuna si defila. Esausti, tiriamo fuori dallo zaino il Tricolore, cantiamo Fratelli d'Italia, qualche foto, un sorso di Cognac, ma la festa dura poco: c'è ancora un'enormità di strada da percorrere e le scorte sono al limite. All'orizzonte, in savana, si profila una spaventosa tempesta di sabbia, ma appena iniziata la discesa scoppia un tremendo temporale. Zuppi, ci rifugiamo nella macchia per allestire il bivacco: l'attività è febbrile, tutti spaccano e scortecciano la legna fradicia per accendere un indispensabile falò. Le lame scivolano e un compagno si apre una mano col machete: sotto un telo, il paramedico Manno lo ricuce a perfezione e il lavoro riprende. Ci si spoglia per asciugare al fuoco i vestiti tecnici della S.O.D., in prospettiva di una nottata umida e fredda. 

Il giorno dopo, la strada da percorrere è doppia. Troviamo un Dik Dik, una piccola gazzella, appena uccisa da un leopardo il cui ruggito echeggia non lontano, facendoci gelare il sangue. Una valle dopo l'altra, con pendenze spacca-gambe, si arriva al valico d'uscita, ma la visuale dall'alto è desolante: restano km e km di savana ancora da percorrere prima di giungere alla strada. Se non bastasse, torna la pioggia: la terra rossa diventa un fango vischioso, che fa scivolare per metri, mentre ci si infila nei cunicoli spinosi. Le gambe a pezzi, le braccia scorticate dai rovi, le forze al lumicino, ma dopo diverse ore si raggiunge la pianura e smette di piovere. Bisogna adesso stare attenti alle formiche: non pochi di noi vengono assaliti dagli insetti che salgono su per le gambe mordendo con furia. Ma, via via, il bush si dirada, appaiono le prime vacchette smagrite governate dai pastori Masai. Poi incontriamo dei bambini in uniforme scolastica che tornano nelle loro capanne di bandone: guardano incuriositi quei bianchi laceri e sporchi che si abbracciano crollando in terra esausti. 

In quattro giorni l'impresa è compiuta: la dedichiamo ai nostri militari prigionieri degli inglesi che, alle pendici della Black Mountain, furono obbligati a costruire ponti, oggi diroccati. Il perché di questa massacrante avventura? Esplorare un angolo di mondo esterno e uno di mondo interiore, secondo il proverbio africano: "Ciò che non hai mai visto lo trovi dove non sei mai stato".

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