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Kamala Harris, chi è davvero la "santa della sinistra" americana (e come può far fuori Joe Biden)

Carlo Nicolato
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Quel 28% scarso di consenso attestato dai sondaggi di novembre è stato la classica goccia che fa traboccare il vaso: nell'arco di poche settimane due delle figure di punta dell'ufficio di Kamala Harris hanno annunciato le dimissioni. Frasi di rito al commiato, e grandi attestati di stima per la vicepresidente e gli altri colleghi di lavoro, ma che in quell'ufficio ormai da tempo volassero gli stracci è cosa risaputa. La prima ad annunciare la sua dipartita è stata la direttrice delle comunicazioni Ashley Etienne, ex collaboratrice di Obama, che secondo i ben informati non era all'altezza della situazione, cioè non è stata sufficientemente in grado di rintuzzare gli attacchi della stampa alla Harris; colpevole di averla, secondo quanto riportato dalla Cnn, «lasciata esposta alle critiche» che sono fondamentalmente «di carattere sessista e razzista». 

 

La seconda defezione è ancora più importante e riguarda la stessa portavoce, la non simpatica Symone Sanders, che già aveva lavorato per Joe Biden nei precedenti tre anni. La Sanders ha ringraziato tutti, compreso il capo dello staff Tina Flournoy con la quale avrebbe avuto ripetuti attriti, accusata, quest' ultima, di aver creato nell'ufficio un clima malsano «in cui le idee vengono ignorate o vengono accolte con severi licenziamenti e le decisioni vengono sempre rimandate». Non una novità sedi mezzo c'è Kamala, la sua corsa alla candidatura democratica per la Casa Bianca finì allo stesso modo, con i suoi collaboratori che le rinfacciavano di aver creato un clima d'inferno nel suo staff e di aver permesso a sua sorella Maya di avere troppa influenza. 

In questo caso però il malcontento nasce anche dal fatto che la Harris, prima donna e prima nera a ricoprire la carica di vicepresidente, si aspettava molto di più dal suo ruolo, così come i suoi fan credevano che in qualche modo potesse lasciare fin da subito la sua energica impronta. Niente di più illusorio, un vicepresidente deve fare appunto il vicepresidente, assumere un ruolo subalterno, essere un numero due anche se per tutta la vita ha creduto di essere un numero uno. È il caso appunto di Kamala la cui vita passata è già assurta a leggenda, una vita costellata di segni premonitori da predestinata. Nata a Oakland, in California, il 20 ottobre 1964, Kamala ha avuto modo di conoscere le prime proteste per i diritti civili dal passeggino. La madre di origini indiane, Shyamala Gopalan, e il padre giamaicano, Donald Harris, si erano infatti conosciuti all'Università di Berkeley condividendo una passione comune peri movimenti studenteschi, neri ovviamente. 

 

Da bambina frequentava insieme la sorella sia un tempio indù che una chiesa battista, «ma mia madre (i genitori nel frattempo avevano divorziato ndr) sapeva bene che stava allevando due figlie nere», scrisse in seguito la Harris nella sua autobiografia, «ed era determinata a fare in modo che saremmo diventate donne nere sicure e orgogliose». La leggenda narra che appena 13enne a Montreal, dove la madre aveva trovato un posto di ricercatrice oncologica, aveva capeggiato una manifestazione per protestare contro il regolamento condominiale che vietava ai bambini di giocare sul prato di fronte a casa. Alla Howard University di Washington, il prestigioso college storicamente nero dove si è laureata in scienze politiche ed economia, si era unita alla sorellanza "Alpha Kappa Alpha". Ma è con il ritorno in California e l'inizio degli studi di legge a San Francisco che finisce la leggenda e inizia quella realtà in cui Kamala sente di essere una predestinata e fa di tutto per assecondare il destino. Nel 1990, a 26 anni, entra nell'ufficio del procuratore della contea di Alameda a Oakland come assistente procuratore distrettuale annunciando di voler «cambiare il sistema dall'interno». Nel '94 si mette con Willie Brown, potente politico Dem di 30 anni più vecchio di lei, che di lì a un anno diventerà sindaco di San Francisco. 

Il fidanzamento le frutta la nomina al California Unemployment Insurance Appeals Board e alla Medical Assistance Commission, e quindi 80mila dollari aggiuntivi allo stipendio assistente procuratore. Dopo un anno capisce che può fare da sola e lascia Brown. Il circolo di amicizie che nel frattempo è riuscita a coltivare le permette di trovare i soldi necessari per presentarsi, nel 2003, alle elezioni per il posto da procuratore distrettuale di San Francisco. Con il 56,5% dei voti diventa la prima donna di colore ad assumere tale carica in California e nella stessa tornata elettorale diventa governatore dello stesso Stato il suo amico intimo Gavin Newsom. Nel 2003 Kamala Harris è già in pratica la donna più potente della California. Nel suo lavoro di procuratore si distingue per aver rifiutato di sostenere due iniziative elettorali che avrebbero vietato la pena di morte e per questo viene accusata di opportunismo politico e incoerenza dalla stessa parte politica che l'ha appoggiata e tutt' ora l'appoggia. Kamala però tira dritta, l'importante è arrivare alla meta. In questi anni conosce il senatore Barack Obama che appo rà nella sua corsa alla Casa Bianca nel 2008. 

La Harris sa sempre scegliere il cavallo vincente e grazie anche all'onda di consenso per il primo presidente democratico nero nel 2011 diventa procuratrice generale della California, prima donna e prima nera in quel ruolo. Anche da attorney general viene accusata di opportunismo dai suoi, specie quando nel 2014 e nel 2015 e si è rifiutata di indagare sull'uccisione di due neri da parte della polizia. Nel frattempo sposa Doug Emhoff, un avvocato aziendale, e nel 2016 riesce finalmente a farsi eleggere al Senato. È tempo per una prima autobiografia, che abbiamo già citato e che esce nel 2019, alla vigilia della candidatura perla Casa Bianca. Si intitola "The Truths We Hold: An American Journey". «Un patriota non è qualcuno che perdona la condotta del nostro Paese qualunque cosa faccia», si legge in quelle pagine, «è qualcuno che combatte ogni giorno per gli ideali del Paese, qualunque cosa serva». Aspettative troppo alte che non si addicono a un numero due, silenzioso e accondiscendente. E per questo Kamala rischia di diventare anche una perdente.

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