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Ucraina, "prime navi straniere nei porti": guerra, perché è una svolta?

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Una delle conseguenze più gravi della guerra in Ucraina riguarda il grano bloccato da Mosca nei porti. Una situazione insostenibile che rischia di scatenare una crisi alimentare senza precedenti. Adesso però sembra che qualcosa stia cambiando: le prime otto navi straniere - come riporta il Messaggero - sono arrivate nei porti ucraini per caricare il grano bloccato. Si tratta di un successo del presidente turco Erdogan, da settimane al lavoro per trovare un compromesso. Cosa che sarebbe riuscito a fare ieri, dopo avere avuto un colloquio telefonico prima con Putin e poi con Zelensky.

 

 

 

"Su richiesta del ministero delle Infrastrutture, unità navali delle nostre Forze armate garantiscono il trasporto di prodotti agricoli da parte di navi civili attraverso l'imboccatura di Bystre del canale Danubio-Mar Nero": questa la comunicazione della Marina militare di Kiev. Intanto, però, la guerra va avanti. Lo zar ha fatto capire che non ha intenzione di arrendersi e che le sue mire espansionistiche non si limitano al Donbass. Il suo obiettivo è conquistare l'intero Paese, inglobandolo nella Federazione russa. Va letta in quest'ottica la decisione di semplificare la procedura per la cittadinanza russa a "tutti i cittadini ucraini che la richiedano". Per ottenere il passaporto russo, dunque, non sarà più necessario aver vissuto cinque anni in Russia, avere una fonte di reddito e sottoporsi a un esame di lingua. 

 

 

 

Pure il suo avversario, però, non vuole arrendersi. "Il ritiro delle forze russe occupanti dalla nostra terra è inevitabile, come la loro punizione", ha detto Zelensky. Che poi avrebbe anche dato l'ordine ai suoi di riprendersi le aree costiere occupate, da Kherson a Zhaporizhzhia, fondamentali per l'economia del Paese. "Questa è una guerra di logoramento militare da parte dei russi, e di logoramento politico da parte degli ucraini. E le armi fornite dall'Occidente fanno la differenza, consentendo all'Ucraina di sopravvivere", ha spiegato al Messaggero Francesca Manenti, direttrice del Centro studi internazionali.

 

 

 

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