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Putin, "mani sporche di sangue": l'agghiacciante minaccia a Berlino

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"Non so cosa ci aspetta/ma so che sicuramente vinceremo/è una guerra, che non abbiamo iniziato noi/ma la finiremo, non so quando/ma la nostra bandiera sventolerà a Berlino/nell’attesa non ho paura di sporcarmi le mani di sangue". Il testo rap di Nikolay Romanenko, un soldato decorato con l’Ordine del coraggio, è stato intonato sulla melodia di Katiuscia, la più famosa canzone popolare sovietica durante la Festa Nazionalista russa. In italiano è il tema dell’inno partigiano Fischia il vento, un inno sicuramente meno truculento di quello cantato davanti allo zar Vladimir Putin e a 80 persone che riempivano lo stadio dei Mondiali. A far impressione, nel preciso reportage di Marco Imarisio inviato a Mosca per il Corriere delle Sera soprattutto il verso "la nostra bandiera sventolerà a Berlino/nell’attesa non ho paura di sporcarmi le mani di sangue". Parla di Berlino, non Kiev, come se quella che sta combattendo la Russia in Ucraina sia la guerra sovietica contro il nazismo della seconda guerra mondiale. L'obiettivo, sembra dire, non è l'Ucraina, ma l'Europa. Putin vuole riuscire nell'impresa che fallì Stalin.

 

I cantanti Akim Apacev e Darya Frei dal palco dello stadio hanno un canto funebre ucraino con parole riadattate ai tempi "Nella fabbrica dell’Azovstal sono stati sepolti i demoni nazisti…". Prima ancora Liubé, il gruppo preferito da Vladimir Putin, che deve il suo nome a una località della periferia moscovita diventata celebre negli anni Novanta per essere il crogiuolo delle più feroci bande criminali dell’epoca, cantava chiedendo l'aiuto del pubblico per il ritornello: "Sergente, devi credere nell’anima del soldato, lei ci condurrà alla gloria". Tutti insieme, ha intimato il cantante. Immarisio racconta delle persone, molte arrivate da molto lontano, che non sono riuscite a entrare allo stadio dove il concertone era a inviti per almeno 80 mila persone. Si entrava solo con il biglietto, facsimile di una bandiera russa, reperibile attraverso associazioni regionali. Trecento rubli di incentivo, l’equivalente di due pacchetti di sigarette, e una indispensabile coperta per proteggersi dal freddo feroce, 15 sottozero alle due del pomeriggio. Gli uomini di cui parla Immarisio non hanno il biglietto per entrare alla "fiera dell’ultranazionalismo". "Non importa, basta esserci" dice Yurij, siberiano allampanato che sventola una bandiera con la scritta "Per la madrepatria, per la sovranità, per Putin". Fa parte di formazione così estrema da essere stata bandita da ogni consesso presentabile. "È una autentica ipocrisia" dice ammiccando verso lo stadio. "Stanno ripetendo le nostre parole d’ordine". Ci saluta al grido di Dio, patria e famiglia.

 

 

Alle 16.30 arriva il momento tanto atteso. Racconta Immarisio che Putin parla solo cinque minuti: "Difensore della patria. In queste parole c’è qualcosa di enorme, potente, mistico e sacro. Non a caso la preghiera più nota inizia con Padre nostro, non a caso noi diciamo Madre Patria: perché c’è qualcosa di molto vicino a ogni persona, a ogni anima. Alla fine dei conti, patria e famiglia sono la stessa cosa. Quando siamo uniti come oggi, non abbiamo uguali. Tutto il nostro popolo è difensore della patria. Evviva!". In contemporanea con l’uscita del presidente, si sono alzate almeno 20 mila persone per dirigersi ai cancelli. La fede patriottica non conosce limiti, ma anche il freddo non scherza. Avvolti da coperte termiche, Sergey e gli altri resistono impavidi sotto lo sguardo severo di Lenin. "Come nel 1943".

 

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