Emmanuel Macron ci invidia perché ha perso la sua identità
E se fosse tutta e solo invidia? E se al fondo degli attacchi francesi all’Italia, o anche delle mancate scuse, ci fosse un banale e molto umano sentimento che agisce a livello inconscio negli individui ma anche, come ci hanno insegnato alcuni grandi maestri del pensiero politico, nelle organizzazioni e nella società? Consideriamo qualche elemento per dare un minimo di credibilità alla tesi. La Francia è oggi un Paese allo sbando. Segnata da una conflittualità sociale e culturale che è andata sempre più acuendosi negli ultimi anni, essa non possiede più quello che ne ha fatto da sempre un motivo di attrazione per molti fuori dai suoi confini e su cui si basava ogni velleità di grandeur, all’interno: una identità forte e una stabilità di fondo sui propri valori.
Certo, la Francia ha vissuto anche altri momenti di crisi politica, si pensi solo a quella susseguente alla rivolta algerina che portò alla instaurazione della Quinta Repubblica. L’impressione è che però in quei frangenti qualcosa rimaneva stabile e coeso nell’anima della nazione. È inutile girarci attorno: ciò che ha mandato in frantumi quella unità sono state proprio le successive ondate migratorie che la Francia ha subito a più riprese, spesso provenienti da Paesi che erano state sue colonie. Anzi, la deflagrazione è avvenuta con l’affacciarsi al mondo della seconda generazione degli emigrati, pieni di risentimento e rancore per ciò che hanno immaginato di aver perduto.
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L’ISLAMISMO POLITICO
Nessun Paese come la Francia è stato colpito dalla furia dell’islamismo politico. È in quel momento che si è capito che il modello di integrazione repubblicana basato sull’assimilazione dei nuovi arrivati non aveva funzionato: i sacri e universali valori della Rivoluzione francese per molti dei nuovi cittadini non erano sacri e né tantomeno universali. La crisi si è riversata prima di tutto sul mondo intellettuale: quello che era un mondo sicuro e pieno di sé, compatto attorno alle sue istituzioni e ai suoi uomini, si è diviso in almeno due fronti. Mai come negli ultimi anni il dibattito culturale d’oltrealpe è stato dominato non dal classico intellettuale impegnato della rive gauche ma da scrittori e filosofi che hanno fatto dei propri valori di riferimento quelli opposti al cosmopolitismo e all’universalismo progressisti prima dominanti. Da Michel Onfray a Eric Zémmour, da Alain de Benoist a Alain Fienkelkraut a Pascal Bruckner, l’elenco è lunghissimo.
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In questo senso, l’avanzata della destra politica e la scomparsa del partito storico dei conservatori, il gaullista, non può essere visto come un fenomeno solo reattivo. Più nel profondo, esso segnala anche il formarsi di una nuova egemonia che non può essere contrastata né dalla sinistra classica né da esperimenti tecnocratici come quello di Macron. È anzi il venir fuori di una sinistra movimentista e arcaica al tempo stesso, come quella di Mélanchon, nonché di frange insurrezionaliste tipo i Gilet gialli, che può essere vista come una reazione. Macron e il suo governo, che non sono riusciti a far passare senza traumi nemmeno una riforma del sistema pensionistico tutto sommato “tiepida”, avvertono probabilmente di essere al capolinea. Da qui un inconsulto attivismo sulla scena internazionale che, dalle trattative con Putin all’intesa cordiale con la Cina, ha creato più volte imbarazzo nell’alleato americano. E da qui anche forse l’invidia per un Paese come il nostro che ha riconquistato una stabilità politica che negli ultimi decenni non aveva mai avuto, che economicamente tiene, che si muove con efficacia in Africa e sul quadrante mediterraneo e internazionale, che potrebbe rovesciare col suo nuovo governo le alleanze e i rapporti di forza attualmente vigenti in Europa. Più che due Paesi sono due sistemi e due mondi che sembrano guardarsi in cagnesco. E non meraviglia che, fra i due competitor, sia chi si è sempre considerato “superiore” il più nervoso.