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Giorgia Meloni, l'elogio dell'ambasciatore Usa: "Fondamentale", Pd in tilt

Fausto Carioti
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Le ultime speranze dei democratici italiani di avere a Villa Taverna quello che non hanno al Nazareno, ossia qualcuno che possa dare un po’ di filo da torcere a Giorgia Meloni e al suo governo, sono appena sfumate a Washington, nella commissione Affari esteri del Senato. Jack A. Markell, l’ambasciatore scelto da Joe Biden per l’Italia e San Marino, ha illustrato ciò intende fare durante la sua missione e ha risposto alle domande dei parlamentari. Ha dimostrato di conoscere già bene la situazione del nostro Paese ed ha avuto solo parole di apprezzamento per ciò che il governo italiano ha fatto sinora. Contro la Russia e la Cina, e per aumentare le spese militari, ci sarà altro lavoro da fare insieme. 

Nel Pd avevano sognato un copione molto diverso. Gli Stati Uniti non hanno un ambasciatore di ruolo a Roma dal gennaio del 2021 e per mesi la sinistra italiana ha sperato che Biden le regalasse l’italo-americana Nancy Pelosi, a lungo capo dei democratici e speaker (presidente) della Camera dei rappresentanti. Una figura così caratterizzata politicamente sarebbe stata perfetta per fare da chioccia ai democratici italiani e pungolare il governo Meloni sull’agenda dei “diritti civili”. L’incarico è andato invece al sessantaduenne Markell, ebreo, pure lui democratico e vicino a Biden, ma con un profilo molto diverso: viene dal mondo della finanza e delle telecomunicazioni ed è stato governatore del Delaware, lo Stato con la legislazione più favorevole alle imprese. Il presidente statunitense lo ha nominato ambasciatore all’Ocse nel 2021 e poi ha deciso di spedirlo in Italia. Così mercoledì Markell era davanti a quei senatori, chiamati ad esaminarlo prima di dare il loro parere sulla nomina.

 


«IL 2% È IL MINIMO»
La nazione in cui Biden vuole mandarlo come ambasciatore, ha detto, «ha un ruolo fondamentale da svolgere» accanto agli Stati Uniti e agli altri alleati della Nato. L’Italia, infatti, «è una convinta sostenitrice degli sforzi alleati per contrastare la guerra di aggressione della Russia. Supporta il popolo ucraino con assistenza militare, economica ed umanitaria». L’ennesima conferma che la scelta atlantica della Meloni è stata cruciale anche per dare al suo governo un ruolo di rilievo nelle relazioni internazionali. «La posta che gli Stati Uniti hanno in gioco con alleati importanti come l’Italia è enorme», ha spiegato l’ambasciatore, convinto che «siamo davvero ad un punto di svolta nella Storia», poiché «Paesi autoritari come Russia, Cina ed Iran minacciano lo stile di vita ed i valori di cui gli Stati Uniti e gli alleati che condividono la stessa visione hanno goduto per molti anni». Anche per questo, elencando gli obiettivi principali della sua missione a Roma, ha promesso di «incoraggiare l’aumento della spesa italiana per la difesa, in linea con l’impegno previsto dagli accordi Nato, pari al 2% del Pil». Per Washington è un vecchio tasto dolente: dei trenta Paesi membri dell’alleanza, oggi solo sette raggiungono quel livello di spesa e l’Italia, col suo 1,51% del Pil, pari a 28,8 miliardi di euro, stanzia un quarto meno del previsto. Nei giorni scorsi il ministro della Difesa, Guido Crosetto, ha ribadito che il governo intende raggiungere l’investimento pattuito, purché venga rivisto il patto di stabilità europeo che impone alla spesa pubblica «margini ristretti».

Un senatore repubblicano, Pete Ricketts, ha domandato all’ambasciatore se ritenga «credibile la promessa del premier Meloni di raggiungere quel 2%». Markell ha fatto sapere di averne già discusso con la diretta interessata: «Quando ho affrontato l’argomento con i miei interlocutori in Italia, incluso il primo ministro, ho espresso in modo chiaro che noi lo riteniamo non un “soffitto”», ossia un limite massimo, «ma “un pavimento”», una base minima. Ha ammesso di non avere idea di quanto tempo occorrerà all’Italia per arrivare a quel livello di spesa, ma ha assicurato che insisterà col governo su questo punto. 

IL DOSSIER PECHINO
All’ambasciatore è stato chiesto anche come avvicinare il governo di Roma alla linea degli Stati Uniti nei confronti della Cina, visto che l’Italia «si è impegnata nell’iniziativa Belt and road ed il primo ministro italiano ha assunto una posizione alquanto decisa contro l’ingerenza cinese». Markell ha risposto che l’Italia ha già fatto molto, «ha utilizzato la clausola del Golden Power su transazioni che vanno dai chip agli equipaggiamenti robotici e, più recentemente, agli pneumatici, allo scopo di limitare la capacità della Repubblica cinese di investire in Italia».
Quanto all’accordo Belt and road, voluto all’epoca da Giuseppe Conte e Luigi Di Maio, «l’Italia decisamente non ha avuto molti vantaggi da questa iniziativa», anzi ha subìto dalla Cina «la combinazione di finanziamenti opachi ed evidente mancanza di informazioni e trasparenza su una serie di questioni, incluse quelle riguardanti le organizzazioni internazionali per la salute». Mostrando di aver già discusso con le autorità di Roma anche di questo, Markell si è detto convinto che «agli italiani è molto chiaro che la Repubblica popolare cinese continua a fare promesse che non può mantenere». Ha concluso promettendo di collaborare con gli italiani «per assicurare che comprendano la grande portata di queste questioni».

 

 

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