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Giorgia Meloni e Joe Biden, il piano: la grande fuga dalla Cina

Marco Respinti
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Tutto comincia dall’inizio, direbbe Totò. E scomodare il principe Antonio de Curtis per una vicenda ridicola in superficie, ma amara e persino tragica, non è fuori luogo. Correva l’anno 2019, era di marzo, e l’Italia stava nel bel mezzo del governo gialloverde guidato da Giuseppe Conte, per le cronache il «Conte I». Il capo assoluto della Cina, Xi Jinping, sbarcò a Roma, trattenendosi dal 21 al 23. Giunse con tutto il blasone: segretario generale del Partito Comunista Cinese e presidente della Commissione militare centrale dal 2012, presidente della Repubblica dal 2013, da gennaio 2018 incorporato nella Costituzione del Paese (era già in quella del Pc) con la propria filosofia nazional-comunista in 14 punti, detta anche “Xiismo”, come già Mao Zedong (e Deng Xiaoping, ma solo da morto) e da marzo 2018 politicamente eterno, avendo abolito i limiti del mandato presidenziale.

 

 

 

IL CAVALLO DI TROIA

All’apparire di Xi in Italia, pochi gli rinfacciarono l’agghiacciante conto di orrori e mattanze. C’era da festeggiare la recente intesa con il Conte I, un Memorandum d’Intesa che faceva dell’Italia il primo Paese di pondo a legarsi alla cosiddetta «Belt and Road Initiative» o «Nuova Via della Seta» della Cina. Usando questo nome, dal 2013 la Cina neo-post-nazional-comunista si fa ben pagare da una buona fetta di mondo un piano massiccio e pervasivo di infiltrazione nei gangli strategici di quanti più Paesi possibile, camuffato da miglioramento degli scambi tecno-commerciali. Con un po’ di estro lo si potrebbe rappresentare su carta come un cefalopode che allunga i tentacoli all’Occidente e al Pacifico, all’Africa e agli Antipodi, lungo una direttrice terrestre e una marittima.

Detta in soldoni, è il modo con cui la Cina lega a sé, per amore, forza, denaro o la necessità di chi muore di fame, Paese dopo Paese, comperando dove si può comperare, costruendo dove c’è da costruire, prestando dove si può prestare onde trasformare i debitori in insolventi costretti poi a cedere settori nazionali strategici e a sorbirsi la disumanità del socialismo tecnocratico che i cinesi conoscono bene. A mettere la firma italiana sull’Intesa fu Luigi Di Maio, allora vicepremier e ministro dello Sviluppo economico, consigliato alle costole dal sottosegretario Michele Geraci, economista, già vicinissimo alla Lega, fan del modello economico cinese, fluente in mandarino, 10 anni in Cina a insegnare in tre atenei. I fautori dell’Intesa lo difesero definendolo vago. Che però non è esattamente un merito per un patto stretto con un totalitarismo enorme che viola le regole e sa controllare economie, infrastrutture, high tech, big data e persone.

L’Intesa, confidenziale, raggiunse di soppiatto il Financial Times. Poi lo ha messo in Internet il governo, a raccontare l’inversione di rotta della politica estera italiana. Il suo essere tavoletta di cera su cui lo stilo verga e cancella come vuole è da sempre l’arma segreta di Xi, dislocata a orologeria da Di Maio, Conte e compagnia sul suolo italiano. Perché in un negoziato il più debole inghiotte e tace. Alcuni venti della tempesta perfetta di Xi potrebbero essere le ingombranti presenze, spesso sbalorditive e sempre vergognose, della propaganda cinese su influenti e rinomati canali dell’informazione e della politica italiane, documentati dall’International Federation of Journalists, da Sinopsis di Praga e da Safeguard Defenders, riecheggiati su Libero e sul portale specializzato Bitter Winter, e persino sul seguitissimo The Hill negli Stati Uniti.

 

 

 

VIA DALLO “XIISMO”

Quanto basta e avanza, insomma, per indispettire da tempo Unione Europea, Nato e Stati Uniti, che saranno anche guidati da Joe Biden, ma che non sono disposti a inginocchiarsi al neocolonialismo ancora orgogliosamente comunista della Cina, la quale ha appena lanciato un nuovo piano strategico di riforma dell’economia che promette solo più statalismo, più mancanza di libertà e più ostinazione a piegare il globo allo “Xiismo”. L’Italia deve mollare l’Intesa Di Maio-Conte con la Cina il prima possibile. Da premier Mario Draghi si rese conto della trappola, promettendo una revisione mai venuta dell’Intesa. Il Centrodestra si è preso a cuore la pratica, paventando persino l’Italexit dalle spire del dragone. C’è da scommettere che pure di questo il premier Giorgia Meloni parlerà presto con la Casa Bianca. 

 

 

 

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