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Aung San Suu Kyi, perché la "grazia" alla Nobel è solo un'altra fregatura

Daniele Dell'Orco
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Serve parecchia immaginazione per parlare di una «grazia» ricevuta da Aung San Suu Kyi. I media statali del Myanmar hanno comunicato ieri di aver ricompreso anche la leader birmana, in carcere da quando è stata rovesciata con un colpo di Stato militare nel 2021, tra gli oltre 7.000 prigionieri amnistiati in occasione della Quaresima buddista. «Il presidente del Consiglio di Amministrazione dello Stato perdona Daw Aung San Suu Kyi, condannata dai tribunali competenti», è il comunicato del governo militare. Ma nelle settimane del caso-Zaki, è bene che il lettore italiano non s'immagini che la «grazia» birmana sia anche solo vagamente simile a quella concessa dal presidente egiziano Al-Sisi allo studente dell'Alma Mater di Bologna.

Sulla testa di Aung San Suu Kyi, premio Nobel per la pace nel 1991, pendeva una condanna di sostanziale carcere a vita (33 anni) dopo processi controversi e accuse di ogni genere (dalla corruzione fino al possesso illegale di walkie-talkie e violazione delle restrizioni imposte per il Covid). La sedicente grazia è nient'altro che uno sconto di pena, poiché riguarda 5 delle 19 condanne a suo carico, e difatti non è al momento chiaro se questo sia sufficiente a garantirne il rilascio. Oggi 78enne, San Suu Kyi è scomparsa dalla scena pubblica dal 1 febbraio 2021, giorno della sua deposizione.

Da allora, è stata vista solo una volta in una serie di foto sgranate, scattate dai media statali, che la ritraevano in un'aula di un tribunale di Naypyidaw, la capitale birmana costruita dai militari nella giungla. La scorsa settimana, una fonte del suo partito ha fatto sapere che è stata trasferita dalla sua cella di prigione in un edificio governativo, una foresteria di cui non si conosce l'ubicazione.
Gli unici incontri di cui si ha notizia sono uno avvenuto con il presidente della Camera bassa, Ti Khun Myat, e un altro qualche settimana fa con il ministro degli Esteri thailandese Dom Pramudwinai, che aveva garantito sulle sue buone condizioni di salute.

UNA VITA AGLI ARRESTI
Nell'ultimo quarto di secolo San Suu Kyi è passata dalle stalle, alle stelle e di nuovo alle stalle. Aveva infatti già trascorso 15 anni agli arresti domiciliari nella sua villa di Rangoon, quando il governo della precedente giunta militare (1962-2011) la considerava una minaccia, per poi diventare leader del governo successivo, quello del tentativo si transizione democratica.
Durante il quale, comunque, l’esercito manteneva un ruolo centrale nella struttura di potere dando alle volte solo la sensazione di voler rispettare la sovranità popolare.

Basti pensare alle critiche che proprio Aung San Suu Kyi subì nel 2017 per la vicenda legata ai Rohingya, la minoranza musulmana della Birmania perseguitata dal 2012. Quando era praticamente capo del governo "de facto", nemmeno San Suu Kyi secondo un rapporto della Missione d'inchiesta indipendente dell'Onu sulla Birmania, riuscì ad arginare le violenze dei leader militari del Paese, accusati di genocidio e crimini di guerra contro i Rohingya. L'Alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani di allora, Ra'ad Al Hussein, chiese per questo le dimissioni di San Suu Kyi.

UN PAESE NEL BARATRO
Due anni e mezzo fa, un nuovo golpe guidato dal generale Min Aung Hlaing l'ha fatta finire di nuovo dietro le sbarre. Da allora, la Birmania è precipitata in una profonda crisi politica, sociale ed economica e in una spirale di violenza che ha aggravato la guerra civile che il Paese vive da decenni, specie nelle campagne del centro-nord (dove la resistenza della popolazione contraria al golpe è armata e organizzata in "Forze di difesa del popolo"), e che è stata capace di produrre un milione di sfollati. L'economia è allo stremo, gli stranieri fuggono, l'inflazione galoppa e lo stato di emergenza viene prorogato di sei mesi in sei mesi da quasi tre anni. 

In tutto ciò, a riprova della natura simbolica dello sconto concesso a San Suu Kyi, l’"Nld", il partito fondato durante le proteste studentesche del 1988 che lanciarono la sua stella, è stato sciolto il 23 marzo scorso dalla giunta militare, assieme ad altri 40 movimenti politici minori. Tra gli amnistiati anche il presidente spodestato Win Myint, a sua volta agli arresti dal giorno del golpe. Gli verranno abbonate due condanne su otto. "La sua pena sarà ridotta di quattro anni", ha dichiarato il portavoce della giunta Zaw Min Tun all'Eleven Media Group. Secondo l'"Associazione di assistenza per i prigionieri politici birmani", che tiene traccia delle detenzioni, circa 20mila persone sono attualmente dietro le sbarre. Praticamente chiunque venga sospettato di mettere in discussione il governo militare.

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