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Joseph Nye: "Macché declino, la grande America è viva"

Francesco Carella
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«Il declino degli Stati Uniti? Uno spettro che accompagna l’intera storia americana». Ne è profondamente convinto Joseph S. Nye, professore emerito alla Harvard Kennedy School e già assistente per gli affari della sicurezza internazionale durante l'Amministrazione Clinton. Egli è il teorico del soft-power, nonché autore di un volume che ha suscitato un acceso dibattito presso l’élite americana, Do Morals Matter? Presidents and Foreign Policy from Franklin D. Roosevelt to Trump (Oxford University Press, 2020). Sta ultimando un libro di memorie la cui uscita è prevista per gennaio 2025, A Life in the American Century.

Il professore segue con un certo distacco le polemiche quotidiane che segnano la corsa per la Casa Bianca. Allo stato di salute di Joe Biden e alle uscite spiazzanti di Donald Trump preferisce lo sguardo lungo della storia, per cercare di capire verso quale direzione potrebbero incamminarsi gli Stati Uniti. Riprende il filo del ragionamento e dice: «Il timore per il declino del proprio Paese è una costante della vicenda politico-sociale americana. Conservo ancora la copertina di una rivista del 1979 in cui il declino nazionale viene raffigurato attraverso la Statua della Libertà in lacrime. Del resto, poco dopo la fondazione della colonia della Baia del Massachusetts nel XVII secolo la comunità dei puritani manifestava serie preoccupazioni per la perdita delle antiche e nobili virtù, preconizzando crisi devastanti».

 

 

Intanto, Donald Trump con lo slogan “rendere di nuovo grande l’America” ha buone probabilità di ritornare alla Casa Bianca.
«Trump intercetta perfettamente quel sentire diffuso (ma senza alcun riscontro nel mondo reale) di cui stiamo parlando. Il fatto è che il “declinismo” aiuta a capire le dinamiche della psicologia popolare, ma non consente di muoversi in termini razionali in un contesto geopolitico. Se un Presidente ne fa il suo mantra può essere indotto a commettere molti errori sul terreno della politica sia nazionale che internazionale. In tal senso, sono state fatte scelte negli anni scorsi che non hanno giovato al Paese. Penso alla decisione di attuare rigide misure protezionistiche o a campagne militari che si sono rivelate sbagliate e che, soprattutto, hanno prodotto situazioni di difficile governabilità come è avvenuto in Iraq».

Le difficoltà incontrate da Joe Biden in questi mesi nell’influenzare l’attuale politica israeliana in Medio Oriente che cos’è se non il segno di una fase critica per l’egemonia statunitense?
«Coloro che conoscono la storia sanno che difficoltà di questo genere non rappresentano una novità. Gli Stati Uniti non hanno mai avuto quel potere che molti immaginano assoluto. Pur potendo disporre di notevoli risorse economiche e militari, l’America spesso non è riuscita a ottenere ciò che voleva. Chi pensa che il mondo di oggi sia più complesso e tumultuoso rispetto al passato dovrebbe ricordare ciò che accadde nel 1956, quando la Casa Bianca non riuscì ad impedire a Paesi alleati come Gran Bretagna, Francia e Israele di occupare il Canale di Suez. Un’inedita convergenza con l’Unione Sovietica evitò che la situazione potesse degenerare».

 

 

Lei ha scritto recentemente che la Cina è un concorrente dotato di una potenza non trascurabile, ma che gli Stati Uniti possono contare su una serie di vantaggi che a lungo termine li favorirà.
«Infatti, partiamo dalla posizione geografica. Gli Stati Uniti sono circondati da due Oceani e da Stati con cui intrattengono ottime relazioni, mentre la Cina confina con 14 Paesi ed è impegnata in controversie territoriali non irrilevanti. Pensi solo alle tensioni nei rapporti con l’India. Gli Usa possono contare su una relativa indipendenza energetica, la Cina, perlopiù, dipende dalle importazioni. In terzo luogo, il potere degli Stati Uniti deriva dalle sue grandi istituzioni finanziarie e dal ruolo internazionale del dollaro. Una valuta di riserva credibile deve essere liberamente convertibile, radicata nei mercati dei capitali e garantita dallo Stato di diritto. Tutte condizioni che mancano alla Cina e che ne indeboliscono il soft-power ovvero l’esercizio del potere di attrazione nei confronti di altri Stati».

Fra meno di un anno ci saranno le elezioni presidenziali. Con la prossima Amministrazione in che modo potrebbero cambiare gli scenari globali?
«Gli Stati Uniti conserveranno una posizione di forza nella competizione tra le grandi potenze anche nel Ventunesimo secolo. Spero che il prossimo presidente, repubblicano o democratico che sia, ne abbia piena consapevolezza. Sarebbe un grave errore se venissero ignorate posizioni di alto valore strategico che hanno caratterizzato fin qui il nostro sistema di alleanze. Penso ai legami con l’Europa e al ruolo della Nato, ambedue importanti più che mai per contrastare l’attuale politica di Vladimir Putin. L’America non ha bisogno di diventare di nuovo grande. È già un grande Paese democratico». 

 

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