Layal Alekhtiar, la giornalista ricercata per aver intervistato un ebreo
Un mandato di cattura è stato emesso dalla procura militare di Beirut nei confronti della giornalista libanese Layal Alekhtiar. Per Al Arabya, l’emittente tv per la quale lavora, aveva osato intervistare Avichay Adraee, uno dei portavoce dell’esercito israeliano. E gli si era addirittura rivolta chiamandolo "estez", cioè “signore”.
Agli sciiti, convinti che gli ebrei- e di conseguenza i cristiani - possano essere ritenuti al massimo delle “scimmie”, ma preferibilmente dei “maiali”, come insegnano il Corano e la tv Al Manar, il colloquio non è andato giù. Così hanno mobilitato un gruppetto di ex galeotti e giornalisti indignati, armati di carta bollata e codice penale: la legge proibisce ai cittadini libanesi di avere contatti con qualsivoglia abitante dell’entità sionista. Anzi, come nella maggior parte dei Paesi arabi, perfino lo straniero che si presenti alla frontiera con un visto d’ingresso in Israele stampigliato sul passaporto viene respinto senza tanti complimenti.
Quindi la reproba, che si permette anche di fare informazione senza il burqa, va processata per tradimento. Lo dicono loro, asserviti a una potenza straniera, l’Iran, che attraverso i terroristi di Hezbollah controlla l’esercito, ma anche l’opinione pubblica, il Parlamento e la magistratura del Paese dei Cedri.
Layal, per nulla intimorita, ritiene di essere oggetto di «persecuzione politica sotto forma di oppressione giudiziaria». La libertà di espressione gliela garantiscono gli Emirati Arabi Uniti, dove risiede per motivi di lavoro e, da ora, anche per evitare di finire in carcere o uccisa barbaramente.
Non sarebbe la prima vittima. May Chidiac, sua collega cristiano-maronita della Lebanese Broadcasting Corporation, è scampata miracolosamente all’esplosione della sua Range Rover nel 2005, anche se, dopo il trentesimo intervento chirurgico, ha una gamba e un braccio artificiali. Avevano tentato di assassinarla perché non accettava il controllo siriano sul suo Paese.
Prima di lei, i sicari di Damasco avevano ucciso il giornalista Samir Kassir. E ora la SKEyes, fondazione a lui dedicata, critica l’incriminazione di Layla Alekhtiar, osservando che i giornalisti possono essere giudicati solo davanti al tribunale della stampa. La campagna di diffamazione e di odio nei confronti della Alekhtiar, intanto, è già iniziata sui social. Senza riuscire a tapparle la bocca. Al contrario, lei contrattacca e mette sotto accusa Hezbollah perché «sacrifica la popolazione del Sud del Libano allo scopo di combattere contro Israele» e denuncia lo sfruttamento politico dei palestinesi di Gaza da parte di una «cultura della morte» che ormai ha distrutto il Libano e metà degli Stati arabi.