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Donald Trump, "avanti dove serve". Sondaggi, terrore puro per Kamala Harris

Carlo Nicolato
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Kamala Harris ha perso il sorriso. In compenso la trovi su ogni trasmissione tv americana, a “60 Minutes” o a “The Late Show with Stephen Colbert” della CBS, così come a “The View” della ABC, e perfino sulla Fox News. Il motivo è presto detto, Kamala Harris non può più permettersi di tacere, come forse sarebbe stato meglio.

La luna di miele con i sondaggi post convention è terminata, Donald Trump ha ormai quasi recuperato il divario sul voto popolare a livello nazionale ma soprattutto è ora in vantaggio in tutti gli swing state, una posizione che se mantenuta gli garantirebbe la vittoria a mani basse. Le medie aggregate di siti come RealClearPolitics.com parlano chiaro: in Arizona conduce di 1,4 punti, in Nevada di 0,8, in Wisconsin 0,1, in Michigan 0,9, in Pennsylvania 0,5, in North Carolina 1,0 e in Georgia 1,1.

 

 

 

LA CANDIDATA PEGGIORE

A prima vista in realtà sembrerebbe poca cosa visto che di solito il margine d’errore dei sondaggi è ben più alto di quelle percentuali da prefisso telefonico, ma qui vanno fatte due considerazioni importanti. La prima è che fino a settembre Kamala era avanti in almeno quattro di quei sette Stati (Michigan, Nevada, Pennsylvania e Wisconsin), la seconda è che la vicepresidente candidata sta ottenendo risultati di gran lunga peggiori rispetto a Biden o Clinton nello stesso periodo nel 2020 e nel 2016.

Prendiamo il caso del Michigan che è lo Stato dove si stanno dando battaglia in questo fine settimana i due contendenti ed è considerato il più tradizionalmente Dem di quelli in bilico. Il 26 settembre scorso RealClearPolitics dava la Harris in vantaggio di 1,8. Secondo altri aggregatori come 270towin.com il vantaggio della vicepresidente era perfino maggiore, addirittura oltre il margine d’errore del 4%. Lo stesso sito, che è il più ottimista nei confronti dei Dem, ieri azzerava completamente il vantaggio di Kamala. Fino a qualche settimana fa il Michigan non era considerato il più importante degli indecisi, ma ora quei 15 voti del collegio elettorale che vengono assegnati in blocco a chi vince rischiano di diventare decisivi. Nel 2016 Trump si aggiudicò lo Stato con appena 10mila voti sulla Clinton, che aveva prevalso nei sondaggi.

Secondo RealClearPolitics tuttavia Kamala Harris è ancora in vantaggio di 1,3 punti su Trump a livello nazionale, ma negli Usa le elezioni non si vincono con il voto popolare bensì aggiudicandosi i collegi elettorali. Nel 2020 Biden ha battuto Trump del 4,4% nel voto popolare del 2020, eppure alla fine è riuscito a vincere le elezioni con appena 77mila voti complessivi arrivati dai collegi elettorali.

 

 

 

L’attuale presidente si aggiudicò l’Arizona, la Georgia, il Nevada e il Wisconsin, tutti Stati nei quali attualmente Trump viene dato in vantaggio. Nel 2016 Hillary Clinton “vinse” le elezioni del voto popolare con 2,1 punti di vantaggio sul tycoon, ma poi perse quelle decisive dei collegi con un gap di oltre 300mila voti. Durante le rispettive campagne elettorali Biden era arrivato ad avere un vantaggio di 9 punti su Trump, mentre la Clinton era arrivata a 7 punti sopra. A metà ottobre del 2020 Biden era in vantaggio di 5 punti, sempre secondo RealClearPolitics, ed era in testa in tutti e sette gli Stati chiave, in alcuni casi di diversi punti. La Clinton era in testa in sei swing state, tutti tranne la Georgia. Oltretutto ci sono sono studi che nemmeno danno per scontata la vittoria di Kamala a livello nazionale.

Per la prima volta Trump è passato in vantaggio anche nel “538 forecast”, un sistema di previsione elettorale che non prende in considerazione solo le rilevazioni demoscopiche, ma anche elementi come dati economici e demografici. Secondo questa proiezione Trump ha sorpassato la Harris e avrebbe ora il 51% di probabilità di vincere a novembre. Un altro modello di previsione gestito da The Hill e dal quartier generale del Decision Desk assegna in questo momento a ciascun candidato esattamente il 50% di probabilità di prevalere, in calo rispetto al recente massimo del 56% registrato dalla vicepresidente Dem meno di un mese fa.

 

UN PIANO D’EMERGENZA

Ecco perché Kamala è passata improvvisamente dai grandi sorrisi della convention, dallo scherno compiaciuto del dibattito televisivo, agli insulti a testa bassa, agli attacchi diretti contro l’avversario sottolineandone la pericolosità, l’inadeguatezza e perfino il suo cattivo stato di salute. Ed ecco perché continua a farsi intervistare su ogni testata possibile nel tentativo di convincere l’elettorato ancora indeciso, contraddicendo il vecchio consiglio popolare attribuito in America ad Abramo Lincoln secondo cui è «meglio restare in silenzio e passare per stupidi che parlare e togliere ogni dubbio».
Nel panico, i Dem si stanno aggrappando a teorie al limite del complotto, tipo quella secondo cui negli ultimi giorni avrebbero preso il sopravvento i sondaggi di aziende schierate. Fanno notare ad esempio che 23 dei 121 sondaggi pubblicati nei sette principali Stati indecisi provenivano da un sondaggista o sponsor repubblicano, mentre solo quattro provenivano da organizzazioni Dem.

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