Keir è già in crisi: si crede Meloni

I laburisti britannici attaccavano le politiche contro gli immigrati. Ma ora le imitano
di Pietro Senaldivenerdì 16 maggio 2025
Keir è già in crisi: si crede Meloni
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C’è un signore che si aggira per l’Europa convinto di essere Giorgia Meloni. Invece è solo Keir Starmer e, anziché il presidente del Consiglio a Roma, fa il premier al numero 10 di Downing Street, London. Un tempo, il centro del mondo. Questo signore ieri è andato a Tirana per incontrare Edi Rama, lo scorso fine settimana confermato per la quarta volta alla guida del Paese delle Aquile e annunciare che anche lui, come Giorgia vorrebbe ma i giudici italiani finora le hanno impedito, intende mandare in Albania gli immigrati illegali. Rama, che incrociando la nostra premier in occasione del suo compleanno, a gennaio scorso, le si era inginocchiato davanti regalandole un foulard e appellandola «Sua Maestà», lo ha mandato a stendere. «Ma chi ti credi di essere, la Meloni?», è stato il senso del discorso del leader albanese, quando ha spiegato che certi accordi li prende solo con l’Italia, nazione vicina certo geograficamente ma anche spiritualmente e diplomaticamente. E ciò malgrado Rama sia di sinistra, come Starmer, mentre Giorgia proprio no.

Il siparietto la dice lunga sulle posizioni scalate dall’Italia nel mondo, ma anche su quelle perse dal Regno Unito. Meno di un anno fa, il Labour Party ha stravinto le elezioni con il 33% dei consensi ponendo fine a quasi tre lustri di governi conservatori ma in nove mesi è precipitato. I sondaggi lo danno intorno al 23%, corrispondente alla percentuale di gradimento del suo leader, che ha perso 29 punti di consenso personale. Tutta colpa dell’immigrazione selvaggia, sostiene il premier, che come ogni politico deve trovare un capro espiatorio sulle spalle del quale caricare, e dietro al quale nascondere, qualsiasi pecca e inadeguatezza.


In effetti, in Inghilterra l’immigrazione è il tema dei temi. In ciascuno degli ultimi cinque anni sono arrivati tra 500mila e un milione di stranieri, legalmente accolti, il che ha fatto aumentare la popolazione del 3,5% dal 2020 a oggi. Si tratta per lo più di africani - non maghrebini - e sudamericani, un po’ meno dall’Europa dell’Est. Immigrazione povera, che abbassa il reddito medio del Paese visto che Londra è stracolma anche di multimilionari giunti da tutto il mondo, ma si tratta di persone che non prendono la cittadinanza per non pagare le tasse, risiedono soltanto, giusto per far schizzare il costo della vita e spingere ai margini gli inglesi doc. «Stiamo diventando una nazione di stranieri, che non si conoscono e non condividono nulla» è lo slogan lanciato dal premier di sinistra, che l’anno scorso si era candidato annunciando «un sistema migratorio basato su compassione e dignità» e bollando come «razzista» qualsiasi legge tentasse di regolare il fenomeno. Oggi quella stessa persona vuol raddoppiare, da cinque a dieci anni, il periodo di residenza necessario per chiedere la cittadinanza; esattamente l’opposto di quello che si propone la sinistra italiana, che sostiene il referendum dell’8 e 9 giugno per dimezzare i tempi.


È lo spettro di Nigel Farage che si materializza. Il suo Reform, il partito antisistema della Brexit, ha stravinto le elezioni locali del mese scorso e veleggia nei sondaggi oltre il 30%. Benché il Regno Unito sia da sempre patria del maggioritario e del bipolarismo, Farage è riuscito ad appaiare Labour e Tory agli occhi della working class inglese. Un po’ come in Germania è riuscito ad Afd con la Cdu e i socialisti, con la differenza però che a Berlino progressisti e conservatori si reggono l’uno sull’altro da decenni.
Il mondo progressista incolpa la Brexit della crisi socio-economica inglese, ma le ragioni sono ben più profonde. Nascono prima dell’uscita di Londra dalla Ue nel 2016, la cui responsabilità è nel non aver risolto i problemi piuttosto che nell’averli drammatizzati.

È il declino industriale post-globalizzazione che il Regno Unito patisce come tutte le democrazie occidentali. È un welfare pesantissimo, fatto di cinque milioni di persone che percepiscono una sorta di reddito di cittadinanza senza lavorare, solo più ricco di quello grillino e che per essere finanziato ha reso necessari sensibili tagli alla sanità. L’Inghilterra, prima conservatrice e oggi laburista, paga il prezzo di essersi lasciata andare alla corrente di un tempo fatto per spingerla sempre più giù e di non aver trovato, tra l’impalpabile Teresa May, la disastrosa Liz Truss e il velleitario Rischi Sunak una guida di livello, capace di imporre un cambio di paradigma interno e di ruolo internazionale. In mezzo anche il pirotecnico Boris Johnson, l’altro politico con il ciuffo, affondato dai festini in tempo di Covid e dalla sua inconcludenza, ma comunque oggi più rimpianto degli altri. La disperazione è diffusa Oltremanica. La politica è in crisi d’identità. Al punto che c’è un compagno che si crede Giorgia Meloni. Chi in Italia lo ritiene più al centro dei giochi internazionali della nostra premier, si rilegga le parole di Edi Rama.