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Sudafrica, quanto vale la vita di un bianco

Oltre ottocento afrikaner uccisi negli ultimi vent’anni. Poi lo Stato espropria le loro fattorie per darle ai neri
di Dario Mazzocchi venerdì 23 maggio 2025

4' di lettura

È una storia che prevede due narrazioni: c’è quella arcobaleno, perché ha per protagonista la cosiddetta Rainbow Nation, e c’è quella marcata dalle croci bianche, piantate a memoria di una pagina triste e violenta della trama. Lo scenario che fa da sfondo non ha eguali, per panorami e storia, ed è il Sud Africa, il cui inno nazionale racchiude un’intenzione nobile, ma purtroppo non sempre mantenuta: Nkosi sikelel'iAfrika, Dio benedica l’Africa, e le strofe sono in lingua xhosa, zulu, sesotho, Afrikaans ed inglese. «Dio, ti chiediamo di proteggere il nostro paese, intervieni e poni fine a tutti i conflitti, proteggici, proteggi il nostro paese, proteggi il Sudafrica, Sudafrica». È diventata la colonna sonora del post-apartheid, del lascito di Nelson Mandela, della tradizione di una terra che ha tratti africani ed europei destinati a condividere gli spazi in pace.

CANTI DI GUERRA

Ma c’è, appunto, un lato nascosto che è emerso una volta di più martedì, quando il presidente sudafricano Cyril Ramaphosa è stato ospite nello Studio ovale della Casa Bianca di Donald Trump. Una conversazione tesa che ha raggiunto l’apice quando lo staff americano ha proiettato i video in cui alcuni leader delle fazioni più estreme che raccolgono il voto degli elettori neri incitava ad ammazzare il boero, l’Afrikaneer, discendente degli esploratori di origine calvinista e olandese che nel 1800 hanno attraversato altipiani e praterie, dedicandosi al commercio e all’agricoltura e trasformando la natura selvaggia in raccolti rigogliosi e allevamenti estesi.

Ramaphosa e il suo entourage si sono trovati in grande imbarazzo, qualcuno ha evitato di guardare il filmato. Altri, come il Corriere della Sera, hanno provato a ridimensionare la cosa scrivendo di «falsità sul “genocidio bianco”» già nel titolo ed elogiando il coraggio del capo di Stato sudafricano che è recato a Washington nonostante una relazione non ottimale: «Ramaphosa – riportava ieri il quotidiano milanese - aveva le sue carte da giocare: ha potuto, ad esempio, dimostrare che la legge che autorizza l’esproprio delle terre dei bianchi menzionata da Trump non esiste».

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La norma prevede l’espropriazione delle terre agricole senza compensazione in casi di abbandono, inutilizzo e se posseduto a fini speculativi e rientra nelle misure intraprese dal 1994 in poi per riequilibrare i pesi tra la comunità di farmer bianchi, predominante, e quella nera perché da braccianti diventino a loro volta imprenditori agricoli. Nel novero delle leggi c’è anche il Restitution of Land Right Act, che consente di reclamare i terreni o ottenere compensazioni per gli espropri del 1913, dettati allora da misure di discriminazioni razziali.

Un tema complesso che finisce per scontrarsi con il lavoro di generazioni di Afrikaner orgogliosi del loro passato famigliare. Un tema che suscita le reazioni più drammatiche e se non si può affermare che è in corso un genocidio, è tuttavia vero che è in corso una caccia all’uomo bianco. Non è una falsità, lo certificano i numeri: dal 2010 al 2023, si sono contati 4.308 violenze nei confronti di agricoltori e allevatori bianchi che hanno provocato più di 800 morti, con un picco di 82 assassini nel 2017. I dati sono raccolti da AfriForum, gruppo attivista per i diritti civili, e dalla Transvaal Agricultural Union. I possedimenti vengono presidi mira dalle frange di ispirazione marxista-leninista, come il movimento Economic Freedom Fighters (EFF), fondato da fuoriusciti dell’African National Congress, il partito di Ramaphosa (e di Mandela) che alle ultime elezioni si è ritrovato per la prima volta in trent’anni senza la maggioranza assoluta. Quelle oltre ottocento vittime con sangue per lo più boero sono rappresentate dalle croci bianche che contrastano con i toni dell’arcobaleno e accanto aloro, sulle colline dove sorgono, si trovano scritte e monumenti che ricordano gli attacchi ai farmer.

Si incrociano salendo da Pretoria verso la città di Polokwane, che significa santuario in lingua sotho, conosciuta anche come Pietersburg, proprio per via di quell’incrocio tra provenienze e storie. «Un gruppo di uomini anziani si sta riunendo a Washington per spettegolare su di me, non ci sono prove significative di intelligence sul genocidio dei bianchi» ha tuonato ieri Julius Malema, il leader dell’EFF immortalato nel clip trasmesso alla Casa Bianca in cui propagandava violenza.

«Non accetteremo di scendere a compromessi sui nostri principi politici sull’espropriazione di terreni senza un indennizzo per opportunità politica», ha rimarcato. Chissà se fosse dispiaciuto o meno nell’affermare che quella del genocidio è una fake news, se pensasse che – riprendendo le sue esternazioni – non siano stati ammazzati abbastanza bianchi?

PROFUGHI POLITICI

Di certo ci sono le 8.000 domande di richiesta d’asilo ricevute dal Dipartimento di Stato americano avanzate dagli Afrikaner. 59 di loro sono stati accolti la scorsa settimana e l’amministrazione in carica ha al suo interno un legame particolare con questa fetta della popolazione sudafricano, che di nome fa Elon Musk, nato a Pretoria. «Voglio che sappiate tutti che siete davvero i benvenuti qui e che abbiamo considerazione per ciò che avete dovuto affrontare in questi ultimi anni», aveva dichiarato nell’occasione Christopher Landau, vicesegretario di Stato.

«Dal blu dei nostri cieli, dalle profondità dei nostri oceani, sulle nostre eterne montagne, dove risuona l'eco fra le rocce, risuona il richiamo a unirci e uniti saremo forti», auspica ancora l’inno sudafricano, nella parte in lingua boera e inglese che tra il 1957 e il 1994 ha rappresentato la versione ufficiale. È uno scenario meraviglioso, con pochi eguali, che sa di identità e di speranza. Un’affascinante storia umana con i suoi inevitabili lati oscuri che non si possono liquidare come falsità solo perché riportati alla luce da un personaggio politico ritenuto antipatico.

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