Nessun settore è stato vitale per l’economia russa e per Vladimir Putin come quello petrolifero. E di conseguenza per i suoi cittadini. Nonostante la guerra, le sanzioni occidentali, i tassi d’interesse elevati (al 21%), l’inflazione oltre il 10%, il rallentamento della crescita del Pil (che quest’anno dovrebbe scendere al 2% e allo 0,9% nel 2026, contro il 4% degli ultimi due anni), i russi hanno prosperato tanto da veder crescere i salari e, in diversa misura, hanno beneficiato della fiorente economia di guerra. Così, mentre economisti e sondaggi indicano che la sensazione di stabilità finanziaria dei russi persisterà, sottolinea il Financial Times, i dati avvisano invece che l’economia bellica sta per presentare il conto al Cremlino.
Il bilancio di Mosca si regge infatti per un terzo su gas e petrolio, il cui prezzo ad aprile è sceso al minimo degli ultimi quattro anni, sotto i 60 dollari al barile il Brent, il 40% in meno rispetto a quanto previsto dal bilancio russo. Ma che succede se i prezzi del greggio si manterranno ai livelli attuali? Intanto, si tagliano le spese non militari. Il 22 maggio il quotidiano filo-Putin Kommersant ha scritto che il governo russo ha ridotto i budget destinati allo sviluppo del settore aeronautico (che passerà da 101,2 miliardi di rubli a 78,8), automobilistico (un taglio da 35 miliardi), tecnologico (i fondi per le industrie hi-tech perderanno 46 miliardi), navale (-12,6 miliardi) e della robotica (il programma per incrementare la produzione di robot industriali perderà quasi un terzo del suo budget, 1,7 miliardi su 5,6 miliardi).
Vladimir Putin, scoop-Reuters: "Le sue condizioni per la pace"
Vladimir Putin è pronto a porre fine alla guerra in Ucraina. Ma a diverse condizioni. Il presidente russo, infatt...A incidere sul prezzo del greggio Urals, il principale prodotto di esportazione della Russia, sono soprattutto i saliscendi causati dai dazi statunitensi e dalla decisione dell’Opec+, l’Organizzazione dei Paesi esportatori di petrolio insieme con gli alleati, di accelerare l’aumento della produzione (a maggio +411mila barili al giorno, il triplo del volume precedentemente annunciato). Secondo Reuters, il gruppo, che ieri si è riunito online e che sabato si riunirà attorno a un tavolo, non avrebbe intenzione di apportare modifiche alla politica di produzione. Tradotto, nessun taglio fino a luglio. Donald Trump è tornato da Riad con l’assicurazione dell’Arabia Saudita, che dell’Opec è alla guida, che i prezzi resteranno bassi.
E a Washington sta covando un nuovo disegno di legge bipartisan (è a firma del senatore repubblicano Lindsey Graham e del democratico Richard Blumenthal) che minaccia di imporre dazi del 500% a qualsiasi Paese «venda, fornisca, trasferisca o acquisti consapevolmente petrolio, uranio, gas naturale, prodotti petroliferi o prodotti petrolchimici provenienti dalla Federazione Russa». Secondo i senatori, la legge mira a «rendere la Cina responsabile del sostegno alla macchina da guerra di Putin attraverso l’acquisto di petrolio russo a basso costo dalla flotta ombra».
La necessità di ostacolare (con improbabile successo) l’alleanza tra Pechino e Mosca è ampiamente condivisa dall’Unione europea: la “flotta ombra”, ovvero le petroliere russe che aggirano le restrizioni imposte da G7 e Ue, è il bersaglio del 17esimo pacchetto di sanzioni imposte da Bruxelles la settimana scorsa. Il presidente americano non ha, ad oggi, intenzione di adottare nuove sanzioni contro Putin perché «penso di essere vicino a un accordo», ha dichiarato, «e non voglio rovinarlo facendo una cosa del genere». Nel fuoco incrociato delle superpotenze, però, finiremmo certamente anche noi europei, che lo scorso anno abbiamo speso circa 23 miliardi di euro in combustibili fossili russi.