Gli Stati Uniti sono un Paese fondato anche sul libero scambio, per questo gravano le importazioni di dazi. Non è contraddittorio: l’enorme crescita e progressiva di una marca di provincia che osò scontrarsi contro un impero è lì a dimostrarlo. Perché gli Stati Uniti impongono dazi dal giorno 1. Vararono la Costituzione il 4 marzo 1789 e il 4 luglio, anniversario dell’indipendenza, il padre della patria George Washington, il presidente senza partito eletto a furor di popolo, approvò i primi dazi americani: 50 cent di un dollaro che allora valeva 30-35 volte più di oggi su ogni tonnellata di merce portata da navi straniere, 30 da navi Usa ma di proprietà estera e 6 sedi proprietà americana. Nel 1791 il Congresso zavorrò il whisky e altri generi l’anno seguente. Nel 1816 nuovi dazi colpirono la Gran Bretagna, un anno dopo la seconda guerra fra i due Paesi.
Altri dazi arrivarono nel 1824, 1828, 1833, 1842, 1846, 1857 e 1861, anno in cui deflagrò la Guerra incivile di Secessione. Durata fino al 1865, sconvolse il Paese in tutte le dimensioni e però fino ad allora proteggere l’economia nazionale con tariffe era considerato buon senso bipartisan. Dopo la Guerra l’idea permase, ma contestata. Altri dazi giunsero nel 1872, 1883, 1890, 1894 e 1897, ma si sviluppò anche l’idea opposta: lo Stato doveva praticare il laissez faire assoluto (e utopistico). Fu la cosiddetta Gilded Age, “l’età dell’oro” degli industriali da vignetta con monocolo, sigaro e dente alla giugulare del prossimo. A farla da padroni furono i fantastiliardari per i quali i dazi erano l’arcidiavolo: li chiamarono robber baron, a torto o a ragione ladroni. La reazione non tardò. Sorse il populismo (altro fenomeno molto americano e, in termini americani, molto antico), un fronte trasversale che talora sembra un precursore della galassia MAGA: il ceto medio minacciato di estinzione, convinto, con i Padri fondatori, che le libertà si difendano anche alzando qualche muro.
Medvedev-choc contro Von der Leyen: "Vecchia pazza da impiccare ai pinnoni delle bandiere Ue"
L'accordo sui dazi fra Stati Uniti e Ue "è completamente umiliante per gli europei, poiché &egrav...Il governo varò ancora dazi nel 1909, ma la sfida tra i due fronti ebbe una battuta d’arresto nel 1913, quando il governo introdusse la fino ad allora sconosciuta imposta permanente sul reddito: la volle fortemente il deputato del Partito Democratico Oscar Underwood e lo Stato si finanziò con quella al posto dei dazi. Nel 1954 uno dei “grandi vecchi” della Destra americana, odi una sua anima, Frank Chodorov, la denuncerà in un libro proverbiale come la radice di tutti i mali. I dazi però non erano spariti: tornarono nel 1921, 1922, 1930 e 1934. Dopo la Seconda guerra mondiale iniziò la globalizzazione con quella che James Burnham (altro padre nobile della Destra) definì The Managerial Revolution (un suo libro aureo del 1941), ovvero l’esperimento tecnocratico di governi e capitani d’industria infeudati o arruolati nella politica (per esempio Robert S. McNamara, prima presidente della Ford, quindi ministro della Difesa con John F. Kennedy e Lyndon B. Johnson, infine presidente della Banca Mondiale). L’idea era abbattere ogni confine, ma nel 1984 Ronald Reagan, alfiere del capitalismo e della libertà ordinata, firmò il Trade and Tariff Act riprendendosi il potere di dazio.
Da Reagan imparò George W. Bush, che impose dazi sull’acciaio nel 2002, ma pure Barack Obama, che impose dazi sugli pneumatici nel 2009 contro la Cina (35% il primo anno, 30% il secondo, 25% il terzo): i sindacati si spellarono le mani in applausi per i posti di lavoro salvati. Quella lezione l’ha imparata anche Joe Biden, che non levò affatto i dazi su acciaio e alluminio imposti da Trump nel 2018. Biden propose di esentarne l’Unione Europea, che aveva imposto contro-dazi, qualora questa avesse penalizzato le importazioni cinesi. La Ue non lo fece e Biden mantenne dunque la linea trumpiana. Ma contro i dazi della Sinistra la Sinistra non ha mai abbaiato.