Com’era la storia dell’amico di Putin? Trump ieri ha ordinato a due sottomarini nucleari di fare rotta al largo della Russia e naturalmente oggi il giornalismo collettivo dirà che è la mossa di un pazzo.
Non lo è, quello che stiamo vedendo è semplicemente uno «show of force» della Casa Bianca contro un avversario che ha approfittato della debolezza dell’amministrazione di Joe Biden per invadere l’Ucraina e continuare la sua campagna militare con l’ex presidente Dmitry Medvedev nel ruolo di ariete radioattivo, un generatore automatico di incubi nucleari. Quel tempo è finito, Trump ieri - all’ennesima sortita radioattiva di Medvedev - ha messo il punto: «Le parole sono molto importanti e possono spesso portare a conseguenze indesiderate; spero che questo non sia uno di quei casi». Putin non è uno stupido, viene dalla scuola del Kgb, è un signore della guerra, sa che dopo 6 mesi di amministrazione Trump a Washington è cambiato tutto, il gioco di Biden è chiuso. «L’amico di Putin» ha disposto nuove sanzioni contro la Russia, sostiene l’Ucraina con armi strategiche, monitora le mosse del Cremlino con l’intelligence e ora aumenta la sorveglianza marittima.
Questa per l’Europa è una buona notizia, perché senza gli Stati Uniti non possiamo difendere né il fianco orientale né quello del Mediterraneo Centrale e Orientale (dove la democrazia di Israele svolge un ruolo fondamentale, basta pensare che gli scambi dei servizi israeliani con gli americani sono pari a quelli di tutti i Paesi Nato messi insieme) né tantomeno l’area del Baltico e dell’Artico, la zona di ghiaccio e silenzio che i russi considerano «casa».
La politica americana è cambiata profondamente e questa radicale trasformazione l’Europa non l’ha colta con l’eccezione di Giorgia Meloni e di un altalenante Friedrich Merz - perché la sua classe dirigente è ancorata a un vecchio mondo, ragiona secondo paradigmi che sono evaporati. Quello che è accaduto sui dazi è esemplare. L’Unione europea in un soprassalto di realismo ha siglato in extremis con gli Stati Uniti l’accordo politico sui dazi al 15%. Il quadro è finalmente più stabile (per quanto può esserlo con Trump che fa Trump), per le imprese è un buon punto di ripartenza (niente è più letale dell’incertezza), ma siamo alle prime battute di un processo di riscrittura delle regole, il gioco è molto più ampio e ramificato di quanto si immagini e riguarda - come abbiamo visto con le proiezioni di spesa della Nato anche la Difesa. I temi inscindibili: il bilancio del Pentagono, la postura delle forze armate americane nelle aree di crisi, la bilancia commerciale, la sicurezza strategica (materie prime, terre rare, energia, acciaio, farmaci), l’immigrazione e il lavoro, sono una scacchiera unica dove la Casa Bianca gioca per evitare il declino e contrastare l’ascesa della Cina. L’obiettivo di Trump è quello di separare Pechino da Mosca, una «diplomazia del ping pong» rovesciata rispetto a quello che fu di Richard Nixon e Henry Kissinger. Arriverà un momento in cui il Partito comunista cinese e Xi Jinping dovranno scegliere tra l’alleanza con Putin e gli oligarchi di Mosca e un’intesa con Washington per mantenere lo sbocco commerciale del mercato americano e continuare l’esperimento della crescita in una nazione con un miliardo di persone che invecchiano rapidamente e fanno pochi figli.
Il giornalismo collettivo, ancora oggi, si perde nel vuoto moralismo senza cogliere la portata rivoluzionaria delle politiche della Casa Bianca. Bruxelles paga il suo sonnambulismo dopo decenni di “Bonanza”, ricchi surplus commerciali, difesa a carico del contribuente americano (il bilancio del Pentagono è di 1000 miliardi di dollari l’anno) e nessun piano per rendere l’Unione competitiva nello scenario del nuovo mondo che, prima o poi, sarebbe arrivato come un treno in corsa. Non occorreva un genio per vedere l’insostenibile leggerezza dell’essere europeo, quel momento è giunto e improvvisamente è apparso chiaro tutto il nostro ritardo sulla contemporaneità. Le idee viaggiano in un mondo smaterializzato e diventano il sistema nervoso della nuova industria: così il mercato dell’automobile - fondamentale per l’occupazione in quasi tutti i Paesi europei - è finito a carte quarantotto sotto la doppia pressione del cambio degli stili di consumo (colti in ritardo) e delle pazze regole del Green Deal sulla transizione verso l’auto elettrica; mentre l’assenza di campioni europei nei servizi digitali (Bruxelles scriveva regolamenti mentre gli americani lanciavano startup che diventavano unicorni e poi titani globali del settore hi-tech) si è trasformata nell’incapacità drammatica di vedere- che significa anticipare, cavalcare, programmare - l’ascesa dell’Intelligenza Artificiale (dove l’Europa non conta niente) con le Big Tech americane che per il 2025 hanno in bilancio 344 miliardi di investimenti. Siamo fuori da tutti i processi della contemporaneità, con le culle vuote, gonfi di retorica, pronti alla resa, con la bandiera bianca in tasca e i confini aperti, al punto (notizia di ieri che apre la prima pagina di Libero) che la Corte europea afferma che la politica migratoria la fanno i tribunali e non i governi, un esproprio della politica per mano giudiziaria, realizzato in un clima culturale di «sottomissione» (libro profetico di Michel Houellebecq) e antisemitismo galoppante. Troveremo la forza per reagire, ritrovare i valori del «canone occidentale»? Il cosiddetto dibattito finora è sconfortante, è istruttivo guardare cosa sta accadendo su Gaza: mentre la Lega Araba chiede a Hamas di liberare gli ostaggi, arrendersi, disarmare le milizie lasciare Gaza, c’è chi si dice pronto a «riconoscere lo Stato Palestinese». Quale Stato? Quello che in queste ore ha inviato le immagini terribili degli ostaggi ebrei?
È una crisi politica e culturale profondissima e non nasce oggi, viene da scelte sbagliate, un’istruzione hackerata da un pensiero talmente debole da diventare nemico interno, un negazionismo ottuso della realtà che era già cambiata profondamente con i tre shock del 2016-2017: il referendum sulla Brexit nel Regno Unito, la disarticolazione del sistema politico inglese basato su Tories e Labour; l’elezione di Emmanuel Macron che distrugge il Partito socialista francese, che fu il pilastro di una lunga stagione politica europea; la prima vittoria di Donald Trump nelle elezioni presidenziali americane, il colpo di cannone di Make America Great Again interrotto ma non dissolto dall’elezione di Joe Biden durante una fase di «stato d’eccezione», in piena pandemia. Non a caso il Big Bang avviene nelle tre culle della rivoluzione democratica: Londra, Parigi e Washington. Il negazionismo che ho evocato qualche riga fa riguarda la cultura progressista di gran parte delle classi dirigenti dell’Occidente, illuse di vedere dei bagliori passeggeri, hanno perso di vista l’esplosione di una nuova era. Sono trascorsi dieci anni, il mondo è cambiato, loro no.