Israele pronto all'attacco, il piano di Netanyahu: i rischi e gli obiettivi

di Amedeo Ardenzasabato 9 agosto 2025
Israele pronto all'attacco, il piano di Netanyahu: i rischi e gli obiettivi

4' di lettura

Bibi contro tutti. Ovvero il sesto governo di Benjamin Netanyahu contro le Israeli Defense Forces (Idf) e un ampio spettro di oppositori non solo politici. Dopo dieci ore di discussione iniziata giovedì sera e finita venerdì mattina, il gabinetto di sicurezza ha deciso di continuare la guerra contro Hamas.

«Le Idf si preparano a prendere il controllo della città di Gaza mentre distribuiranno assistenza umanitaria alla popolazione civile al di fuori delle zone di combattimento». Lo scopo dichiarato non è occupare Gaza ma liberarla da Hamas. Una decisione non facile per il governo. Ore prima il capo di stato maggiore delle Forze armate, Eyal Zamir, aveva messo in guardia l’esecutivo dall’allargare l’operazione a Gaza. E Zamir non è un oppositore del primo ministro: solo pochi mesi fa lo stesso Bibi lo ha scelto per rimpiazzare il generale Herzi Halevi. Martedì Zamir aveva spiegato al governo che gli uomini delle Idf sono esausti dopo 22 mesi di combattimenti, che la turnazione stretta dei riservisti ha stancato il personale e che avvicinarsi alle zone dove si presume siano trattenuti gli ostaggi mette a repentaglio la vita degli stessi.

Il dado però è tratto. Lo Stato ebraico si incammina verso una nuova fase di guerra contro Hamas, il gruppo terrorista di ispirazione islamica che il 7 ottobre 2023 ha messo a ferro e fuoco il sud di Israele, ucciso 1.250 persone e preso in ostaggio altre 251. Dei 50 ostaggi ancora nelle mani dei tagliagole solo 20 sono ancora in vita e le ultime immagini diffuse da Hamas mostrano corpi scheletrici di persone gravemente denutrite.

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TERRENO INSIDIOSO
Oggi le Idf controllano il 75% del territorio della Striscia: l’ultimo piano approvato dal gabinetto prevede la conquista del restante 25%, ovvero Gaza City al nord e alcuni campi profughi al centro. Un terreno insidioso per forze armate che hanno già perso centinaia di effettivi – moltissimi i ventenni – nel giro di pochi mesi.
Alla popolazione di Gaza City verrà dato fino al 7 ottobre per sgomberare: si tratta di un milione di persone molte delle quali già sfollate più volte dall’inizio delle ostilità. Anche quest’operazione si rivela molto rischiosa: ne può scaturire una catastrofe umanitaria e Hamas – e i suoi megafoni presso l’Onu e la stampa internazionale – ne approfitteranno comunque per dare addosso al governo sionista affamatore.

Altro rischio: Israele è isolato sul piano diplomatico ma non può permettersi l’isolamento militare: in questi 22 mesi non c’è stata alcuna trasformazione in un’economia di guerra e c’è il rischio che le Idf finiscano le munizioni nel mezzo del conflitto. Eppure, la condanna preventiva dei piani di Netanyahu non conosce confini. Il vicepresidente Usa, J. D. Vance, ha fatto sapere che la Casa Bianca segnala «qualche disaccordo» sulla strategia di guerra di Israele, ma non sugli obiettivi. Stesso strabismo per la Germania del cancelliere Friedrich Merz, a oggi il più attivo sostenitore di Israele in Europa: Hamas va disarmata ed esclusa dal futuro di Gaza ma Berlino non fornirà munizioni a Israele per questa operazione. Parole alle quali Bibi ha risposto segnalando «il disappunto» per la decisione di imporre un embargo sulle armi a Israele.

Per il capo dell’opposizione a Netanyahu, il progressista Yair Lapid, il piano di Bibi è «un disastro che porterà ad altri disastri». Da destra l’ex ministro della Difesa Avigdor Liberman afferma che il primo ministro prende decisioni di vita o di morte «contrarie alle considerazioni di sicurezza e agli obiettivi della guerra». Contrarissimi i famigliari degli ostaggi secondo i quali la decisione di attaccare Hamas corrisponde a una condanna a morte per i loro cari. Con Bibi è invece l'ex generale delle Idf Yiftah Ron-Tal secondo cui sconfiggere Hamas controllando tutta la Striscia richiederà pochi mesi, non anni. E che Israele «sta negoziando con se stesso», visto che Hamas ha rifiutato ogni compromesso.

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GOVERNO PACIFICO
Più vicini a Israele che a un’Europa sempre pronta a tradire lo Stato ebraico sono invece i Paesi arabi moderati, convinti che Hamas debba uscire di scena. Un coinvolgimento arabo contro i terroristi o quantomeno nella gestione della Striscia – «un governo pacifico» è quanto auspicato da Israele – sarebbe ideale per Bibi, sempre pronto a rimettersi sulla via degli Accordo di Abramo. Un riavvicinamento sull’asse Gerusalemme-Riad sarebbe anzi l’unica vera vittoria contro un movimento del terrore che ha scatenato il 7 ottobre allo scopo di isolare lo stato ebraico e metterlo in difficoltà, obiettivi ampiamente raggiunti in questi mesi. Oggi però nessuno ha il coraggio di mandare le proprie truppe a Gaza. E a fare il «lavoro sporco», come ammesso di recente dal cancelliere tedesco Merz, è chiamato sempre Israele, colpevolizzato per una guerra contro un nemico che il mondo odia ma che nessuno ha il coraggio o la forza di affrontare.

È molto più facile e a buon mercato annunciare il riconoscimento della Palestina, rafforzando di fatto Hamas, o chiedere la convocazione urgente del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, che si terrà oggi, per discutere di Gaza come fatto in queste ore da Regno Unito, Francia, Danimarca, Grecia, Slovenia e Algeria anche se c’è da scommettere che nessuno di loro invierà propri caschi blu a liberare gli ostaggi israeliani e disarmare Hamas.