Di fronte alla “guerra delle immagini” su Gaza è impossibile ignorare il salto narrativo delle ultime ore: dal filone iconografico della fame e delle tendopoli alla sequenza, dopo il cessate il fuoco di tre giorni fa, di volti sorridenti, bambini ripuliti, uomini che sparano macabramente in aria con Ak-47. Ma attribuire questo scarto solo alla “normalizzazione” sul campo significherebbe confondere l’immagine con la realtà. E quindi cadere in trappola. Il cessate il fuoco è reale e documentato, così come lo sono le morti, le devastazioni, il disastro umano, i primi rientri tra le macerie e la macchina degli aiuti che prova a riaccendersi, pur tra mille incertezze.
Il nodo però è un altro: la costruzione mediatica del conflitto. Per due anni, l’accesso ai reporter stranieri a Gaza è stato negato, per scelta del governo israeliano. Di conseguenza, la totalità della narrazione visiva è dipesa da fonti locali, embedded di Hamas e cosiddetti “stringer pool”, gruppi di reporter locali (quindi non si sa mai fino a che punto davvero indipendenti) che raccolgono (o realizzano) e forniscono materiali a tutti i media quando l’accesso diretto è limitato, controllato o pericoloso. Questo filtro strutturale ha conferito loro un potere che va al di là di ogni immaginazione, rendendo il racconto più vulnerabile alla propaganda e all’amplificazione algoritmica: ciò che “buca” lo schermo domina il feed, non ciò che rappresenta davvero la proporzione del dolore.
Fino a ieri, da Gaza filtravano solo immagini di anziani scheletrici, uomini mutilati, bambini emaciati per via della fame o condannati a battere invano le pentole d’acciaio mentre tentavano di accaparrarsi un piatto di minestra in fondo a una ressa soffocante. Oggi, gli uomini sono tutti in forze, come quelli che sollevano di peso l’influencer superstar SalehAljafarawi (soprannominato nel web mr. Fafo e accusato da Israele di aver contribuito a creare la cosiddetta Palliwood, una caricatura cinematografica del dramma in corso a Gaza), i bambini sono tutti in fila indiana ad aspettare di ricevere un dolcetto, e quel pentolame l’hanno ribaltato per farne un tamburo su cui battere la gioia per il cessate il fuoco. Il risultato è un pendolo che falsifica la percezione: ieri solo “carestia”, oggi solo normalità. In mezzo, la vita reale dei civili, quasi sempre invisibile.
La Gaza che non ti aspetti: apre il Nutella cafè, supermercati pieni
Cibo a Gaza non ce n’è, tranne che nei tunnel di Hamas, ma se ne trova facilmente e in quantità anch...Sul piano della responsabilità, nessuno è innocente. Alcune testate sono sotto accusa per amplificare narrazioni di parte: su tutte, Al Jazeera, accusata di essere la cassa di risonanza della propaganda di Hamas. Basata in Qatar e fondata con 100 milioni di dollari direttamente dalla famiglia Al-Thani (la stessa che ospita ancora la leadership politica di Hamas) Al Jaazera è l’unica emittente che dispone di una rete di corrispondenti, alcuni accusati da Israele (almeno 6, come Anas al-Sharif, ucciso ad agosto) di essere miliziani di Hamas, altri comunque nati e cresciuti nella Striscia e quindi non certo super partes. Più volte Al Jaazera ha minimizzato o giustificato il 7 ottobre e più volte ha censurato testimonianze da Gaza che potessero mettere in imbarazzo Hamas (come chi ammetteva che i terroristi si nascondessero in un ospedale). Come in un gioco del telefono fariseo, la carica di quei materiali già accuratamente selezionati è stata poi addirittura aumentata dai media di mezzo mondo, specie quelli più interessati ad indirizzarla contro i governi.
Sui social, la costruzione è ancora più brutale, e diventa diktat. Immagini e video sulla «carestia di massa» vengono adoperati per supportare la tesi del “genocidio”, il primo della storia che comprende aiuti umanitari sganciati con paracadute, pause e trattative. Di questa pornografia del dolore (prima) e dell’ottimismo (poi) si sono nutriti influencer e blogger che hanno monetizzato parole come a colpi di engagement.
La realtà è però più ostinata del feed. E per chi è disposto a coglierla basta guardare ora i materiali che arrivano dalle stesse fonti esclusive di ieri. Nel grande carnevale digitale, hanno sfilato in testa i professionisti dell’indignazione usa-e-getta: profili che impugnavano la fame come clava morale e oggi impugnano la tregua come assoluzione estetica, passando dal pianto al party in un reel. Sono loro i veri manipolatori: non perché producano fake in laboratorio, ma perché selezionano vero e verosimile per produrre una menzogna di insieme. Hanno trasformato una catastrofe in un brand e una tregua in un filtro life goes on. Gli stessi che gridavano “mai più” quando serviva il picco di portata, ora gridano «tutto a posto» per non perdere il ritmo della monetizzazione, a rischio pure di scontentare i cavalieri dell’Apocalisse: Albanese, Iacchetti, Conte, Di Battista. Se oggi vediamo più immagini di abbracci è anche perché ieri non eravamo autorizzati a vedere abbastanza. E questo non si risolve con il prossimo trend.