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Parmesao e Prosek: l'Italian Sounding costa all'Italia 300mila posti di lavoro. L'analisi dell'imprenditore Andrea Pasini

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Parmesao, Reggianito, Prosek e persino il Chianti canadese. Il fenomeno del falso made in Italy o prodotti “italian sounding” ha superato i 100 miliardi di euro e non accenna a fermarsi.

È innegabile che il made in Italy richiami, nell’immaginario collettivo, una serie di elementi valorizzanti. Nel mondo il made in Italy è sinonimo di qualità, eccellenza e unicità. Un distillato di quella “Dolce vita” raccontata dei film di Fellini. Non sorprende esistano così tanti tentativi di imitazione, quello che è inaccettabile è l’utilizzo improprio di nomi, parole, immagini che richiamino l’Italia per indurre il consumatore a credere erroneamente che un determinato prodotto sia di origine italiana.

Io sono Andrea Pasini un giovane imprenditore nel settore dell’agroalimentare di Trezzano Sul Naviglio e non è un caso che la pratica di “italian sounding” sia stata inserita tra gli atti di pirateria. I fenomeni del falso made in Italy e dell’Italian Sounding contravvengono alle regole della corretta concorrenza e della diligenza professionale negli scambi commerciali, arrecando pregiudizio a produttori e commercianti onesti, e turbano, allo stesso tempo, la libertà di scelta e la fiducia alla leale esecuzione del contratto riposta dal pubblico dei consumatori. L’italian Sounding provoca un danno spaventoso all’export dei nostri prodotti oltre che determinare determina una crisi occupazionale nel settore che secondo le stime di Filiera Italia ammonta a 300mila posti di lavoro in meno. Difendersi dall’italian sounding, dunque, è prioritario: se consideriamo l’intera filiera, dalla produzione alla ristorazione, in Italia l’agroalimentare vale 538 miliardi di euro, quasi un quarto del Pil del Paese. In Europa, l’Italia è il secondo Paese per incidenza del settore agroalimentare sul Pil, dopo la Spagna. E nel mondo i nostri prodotti sono particolarmente richiesti sul mercato europeo, ma anche negli Stati Uniti, Regno Unito e Giappone.Sulla popolarità del made in Italy nel mondo, però, è cresciuta una vera e propria economia parallela, che sottrae significative quote di mercato alle aziende italiane e limita l’incidenza dell’export sul fatturato nazionale.

Il made in Italy è correttamente tutelato a livello penale, con riferimento a tutti gli aspetti che esso coinvolge, nel disposto di diverse fattispecie incriminatrici.

Secondo l’articolo 4, comma 49 Legge 350/2003 (Legge finanziaria 2004), costituisce reato punito ai sensi dell’art. 517 del Codice penale (vendita di prodotti industriali con segni mendaci) l’importazione e l’esportazione a fini di commercializzazione, ovvero la commercializzazione o la commissione di atti diretti in modo non equivoco alla commercializzazione di prodotti recanti false o fallaci indicazioni di provenienza o di origine.

La disposizione chiarisce i caratteri della indicazione “falsa” di provenienza (stampigliatura “made in Italy” su prodotti e merci non originari dall’Italia ai sensi della normativa europea sull’origine), mentre l'indicazione “fallace” si configura anche qualora sia indicata l’origine e la provenienza estera dei prodotti o delle merci, ma l’uso di segni, figure, o quant’altro è tale da indurre il consumatore a ritenere che il prodotto o la merce sia di origine italiana, incluso l’uso fallace o fuorviante di marchi aziendali ai sensi della disciplina sulle pratiche commerciali ingannevoli (si pensi al significato evocativo o alla reputazione riguardo all’identità del prodotto).

È interessante notare che il reato può commettersi lungo tutta la filiera (sin dalla presentazione dei prodotti o delle merci in dogana per l’immissione in consumo o in libera pratica e sino alla vendita al dettaglio). Per completezza, va detto che la norma prevede, al successivo comma 49-bis, un illecito di tipo amministrativo per l’ipotesi dell’uso fallace del marchio, da parte del titolare o del licenziatario, con modalità tali da indurre il consumatore a ritenere che il prodotto o la merce sia di origine italiana ai sensi della normativa europea sull’origine.

Tornando alla tutela penale, possono configurarsi anche i reati di contraffazione, alterazione o uso di marchi, segni distintivi, brevetti, modelli e disegni (art. 473 c.p.) e di introduzione nello Stato e commercio di prodotti con segni falsi (art. 474 c.p.), o ancora, il reato di cui all’articolo 16, comma 4, D.L. 135/2009, convertito in legge 20 novembre 2009, n. 166, a tutela del cosiddetto “Full made in Italy” (prodotto 100% italiano).

Ma proprio perché il falso made in Italy contravviene alle regole della corretta concorrenza e della diligenza professionale negli scambi commerciali, arrecando pregiudizio a produttori e commercianti onesti, e turbando, allo stesso tempo, la libertà di scelta e la fiducia alla leale esecuzione del contratto riposta dal pubblico dei consumatori, esso non è oggetto di tutela di natura esclusivamente penale.

Esistono così due strumenti di tutela. Il primo nel settore di concorrenza e mercato si pensi all’azione di tutela contro gli atti di concorrenza sleale (art. 2598 cod. civ.) mentre il secondo è relativo alla proprietà intellettuale e fa riferimento alle azioni di tutela del marchio e altri segni distintivi previste dal D. Lgs. n. 30/2005.

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