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Paragone, "facciamo da soli": chi si inchina all'Ue ci porta al suicidio

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Gianluigi Paragone
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Come si fa a non capire la portata della sfida? L’Europa è sempre stata accompagnata da una retorica alta (l’Europa della pace e della prosperità, l’Europa del superamento delle Nazioni, l’Europa della pace...) ma al momento in cui si tratta di cantierare il grande progetto, l’Europa si accartoccia sui suoi peccati originali. Io non sono mai stato un “europeista” e le mie posizioni forse troppo radicali sono note, pertanto mi sorprende come i sostenitori dell’euro e dell’Unione non pretendano adesso il balzo in avanti. Il rifugiarsi nel solito “Ci vuole più Europa” è codardia pura, è una frase sospesa nei dibattiti se hic et nunc l’Europa non dimostra la sua reale progettualità. Dalla crisi finanziaria (fallimento Lehman Brothers, mutui subprime, salvataggio banche eccetera eccetera) ai contraccolpi della guerra in Ucraina, anche in Europa abbiamo registrato forti interventi pubblici e altrettante faglie sociali.

Lasciamo perdere cosa è accaduto altrove e concentriamoci nell’eurozona: le leve espansive sono state azionate con generosità ma non hanno fermato l’allargamento di una asimmetria tra chi poggia su asset finanziari e il resto del mondo, con la conseguenza che le élite hanno aumentato in maniera esponenziale i loro profitti mentre la società franava verso il basso. Lo stesso sta accadendo anche ora che la Bce non indietreggia rispetto all’innalzamento dei tassi di interesse: chi ha rendite gode, chi ha stipendi annaspa. Nel frattempo non si trova una via d’uscita seria sul tema dell’aumento dell’energia (sull’approvvigionamento di gas dipendiamo molto dal trasporto del gas liquido via nave; provate a immaginare un intoppo di qualsivoglia genere che provochi il rallentamento degli scambi) e delle materie prime.

 

 

 

Se in una situazione del genere l’Europa ritiene di non doversi fare carico totalmente (senza cioè scaricarlo sui singoli Paesi membri) del debito pubblico generato a livello europeo attraverso gli interventi della Bce (la quale ha recentemente costretto gli Stati a rifinanziare i titoli in scadenza con difficoltà comprensibili) e con il nuovo deficit scaturito dal congelamento del patto di stabilità, allora nulla ha un senso “politico” in questa edificazione europeista. Ricordo che il nuovo indebitamento era quanto mai necessario poiché arrivavamo dalla contrazione post Covid e dalle ricadute del conflitto (energia in primis).

Pensare di ritornare allo schema pre-crisi e a parametri su cui si era già allora aperto un dibattito di revisione è indice di fanatismo illogico. L’allentamento delle maglie doveva essere prodromico alla riforma di una meccanica (fallimentare) a trazione economico/finanziario verso una meccanica più politica. L’Europa e il suo apparato proseguono imperterriti a commettere lo stesso errore in matrice. «A trent’anni dalla concezione dell’euro, moneta supposta unire l’Europa, la modestia dei risultati ottenuti in rapporto alla grancassa che li promosse e tuttora santifica è troppo palese per non seminare disincanto. Quando non eurofobia»: sono parole messe nero su bianco nel suo ultimo libro da Lucio Caracciolo, patron di Limes non della gazzetta sovranista.

Il fallimento dell’Europa c’è, è evidente. Costringerci ancora a impiccarci dietro gli stessi meccanismi diabolici non farà che metter più a nudo quel che l’economista Ashoka Mody ebbe a scrivere nel suo Euro, una tragedia in nove atti: «Gli europei hanno sbagliato strada e la strada in cui si sono ritrovati non è un bel posto. L’euro ha strozzato le economie di molti paesi, creando un clima di divisione amara tra gli Stati membri. Se Aristotele fosse ancora vivo, vedrebbe uomini e donne “eminentemente buoni e giusti” coinvolti in una eurotragedia “non per vizio o per depravazione” ma a causa della loro fallibilità e fragilità». È davvero necessario andare a consumare questa tragedia fino in fondo?

 

 

 

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