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Ecco perché lo "Stato dei diritti" crea discriminazione

Corrado Ocone
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Con indubbio coraggio politico Ursula von der Leyen, in un dibattito fra gli spitzkandidaten all’Europarlamento, ha promosso quasi a pieni voti Giorgia Meloni, con cui ha detto di lavorare bene. La presidente della Commissione europea ha anche mostrato di cogliere il discrimine su cui si giocherà la battaglia politica futura: quello fra chi è atlantista ed europeista, da una parte, e chi in qualche modo strizzerà l’occhio alle autocrazie, a cominciare dalla Russia di Putin, dall’altra.

Anche sul rispetto dello Stato di diritto, la von der Leyen non ha fatto sostanziali obiezioni al nostro governo, pur tenendo a precisare che il suo «approccio» sui diritti Lgbt è «completamente diverso».

Obiezione che ha dato una sorta di involontario assist agli altri partecipanti al dibattito che hanno invece insistito sui pericoli che, a loro dire, lo Stato di diritto starebbe correndo in Italia in questo momento. Pur di attaccare il nostro Paese, essi non hanno esitato nello sfoderare tutte le più viete accuse di latente fascismo che ben conosciamo e che la sinistra e i media italiani alimentano quotidianamente in barba ad ogni “principio di realtà”. Alla base di questa mistificazione c’è un sottile sofisma, cioè un falso ragionamento, che a furia di essere reiterato ha finito per conquistare non poche menti, anche fra la gente comune.
Credo sia giunto perciò il momento di smascherarlo, anche perché esso è solo apparentemente un problema lessicale e concettuale.

 

 

EQUIVALENZE PERICOLOSE - In sostanza, l’operazione che è stata compiuta con un certo successo consiste nell’avvalorare l’equivalenza fra Stato di diritto e Stato dei diritti. Si tratta di una sovrapposizione non solo errata, ma anche pericolosa: il secondo è, infatti, tendenzialmente in contraddizione col primo, per motivi che vanno anch’essi opportunamente chiariti. Lo Stato di diritto, che è un concetto nato in ambito tedesco nel corso dell’Ottocento, sta ad indicare infatti, correttamente parlando, lo Stato che si fonda su leggi e non sull’arbitro di un sovrano o di un gruppo di potere. Le leggi, a loro volta, devono essere universali e necessarie, cioè si devono applicare in modo eguale a tutti. Esse vanno concepite proprio come una protezione della libertà di ogni uomo contro i possibili arbitri. Come si vede, le idee di uguaglianza (formale, cioè civile e politica) e libertà (individuale) sono gli assi portanti di ogni Stato di diritto.

Altra cosa sono invece i diritti, di cui si parla quotidianamente nel dibattito politico e che sono diventati da qualche decennio la bandiera dei progressisti a livello mondiale. Essi, intanto, sono particolari e non universali, pertengono cioè a determinate categorie: le donne, i gay, i poveri, i disabili, i neri, ecc. ecc. Tutta una serie di sedimentazioni storiche, hanno, in effetti, impedito spesso agli appartenenti a queste categorie di essere fino in fondo “uguali” agli altri, cioè di essere liberi e partecipare allo Stato di diritto. Lottare per l’eliminazione di queste barriere è perciò sacrosanto. La “liberazione” però è sempre individuale, non di gruppo.
Ed esige che sia rispettato il principio di reciprocità.

I MAIALI DI ORWELL - L’ideologia dei diritti, che fra l’altro tendono ad estendersi ad libitum, favorendo invece dei gruppi a discapito di altri, e sottraendo i membri di ognuno di essi alla responsabilità individuale, finisce inevitabilmente per discriminare. Nato lo Stato a protezione degli individui, tutti uguali nella loro libertà, esso finisce così per creare degli individui che lo sono più degli altri, un po’ come i maiali della fattoria orwelliana.

 

 

I “diritti” concepiti in maniera sostantiva e non formale sono poi inevitabilmente in conflitto fra loro, e la soluzione, sempre parziale, a questo conflitto può darla solo la politica. L’affermazione di un “diritto” è una questione di momentanei rapporti di forza, non certo di dogmi che si vorrebbero indiscutibili. Un esempio concreto: chi oggi professa valori cristiani è di fatto discriminato dal ceto intellettuale e politico al potere. La contrarietà all’aborto, i valori della famiglia, e via dicendo, non sono considerate opinioni come le altre, con pari dignità di stare nell’agone pubblico e confrontarsi, ma idee tendenzialmente da eliminare perché giudicate arcaiche e negatrici di “diritti” conquistati.

ILLIBERALI PROGRESSISTI - Quando i leader dell’Unione europea mettono sotto accusa degli Stati membri non lo fanno perché in essi non ci sarebbe più libertà per tutti, ma solo perché la libera dialettica politica ha fatto sì che in quel momento i partiti che esprimono sensibilità non progressista abbiano la maggioranza nel Paese. 

Il problema per lo Stato di diritto sorgerebbe se ai progressisti venisse impedito di esprimersi, il che per l’Italia è ridicolo solo pensarlo. Al contrario, si può dire che è proprio il progressismo nel suo profondo illiberale. Esso non vuole solo esprimersi e provare a vincere la battaglia culturale, vuole più radicalmente sopprimere l’avversario.

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