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La Georgia è la sfida che l'Europa deve vincere

Deborah Bergamini*
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Caro direttore, condivido con i lettori di Libero il senso politico - e umano - della visita in Georgia svolta dalla delegazione parlamentare italiana di cui ho fatto parte. E lo faccio perché, in un mondo ferito e scosso dall’irruzione della guerra nell’attualità, quel che sta accadendo a Tbilisi ci riguarda da vicino. La Georgia, infatti, è attraversata da significative tensioni sociali, sfociate in drammatici scontri di piazza, per via di una legge sugli “agenti stranieri”.

Si tratta di un testo che, qualora entrasse in vigore, comporterebbe un giro di vite significativo sulla libertà di espressione e di agibilità sociale e politica, creando una dannosa emulazione, forse preludio di una preoccupante influenza, con quanto avviene in Russia. Il regime di Mosca costituisce ancora oggi per il popolo georgiano un incubo, diventato ancor più pressante dopo l’invasione dell’Ucraina. Anche la Georgia, infatti, rientra negli obiettivi di neo-imperialismo di Putin, già concretizzati in parte nel caso dell’Abkhazia e dell’Ossezia del Sud. Noi italiani vivemmo con particolare attenzione e partecipazione la fase di offensiva russa in Georgia nel 2008, un’iniziativa che solo grazie ad una profonda e pressante moral suasion dell’allora presidente del Consiglio Silvio Berlusconi su Vladimir Putin non si tradusse nell’arrivo dei carri armati a Tbilisi.

 

 

25 ANNI DOPO - Oggi, oltre venticinque anni dopo, il popolo georgiano è profondamente proiettato verso l’ingresso nell’Unione Europea. Un “sogno” ben radicato nella società, che specialmente nelle nuove generazioni percepisce il senso di un’appartenenza alla cultura e al modo di vivere occidentale pienamente maturata. Europa, per i georgiani, vuol dire circolazione di competenze, di cultura, di opportunità economiche in un contesto di mutua condivisione. Europa, però, vuol dire anche maggiore garanzia di libertà a fronte di una minaccia alla propria esistenza di Stato che i georgiani sentono attuale e impellente. Per questo motivo, l’arrivo di una delegazione del Parlamento italiano, Paese che a Tbilisi viene percepito come particolarmente vicino nel ricordo di quanto accadde nel 2008,è stato un passaggio apprezzato. L’abbiamo colto nell’atteggiamento dei nostri interlocutori, tra cui la presidente della Repubblica Salomé Zourabichvili, che ha posto coraggiosamente il veto sulla controversa proposta di legge, innescando uno scontro con la forza politica di governo, Sogno Georgiano, che invece promuove la normativa.

 

 

Dal quadro generale, si ha l’impressione che nel profondo di una società solidamente unita in un percorso di avvicinamento all’Europa e di orientamento occidentale si possa inoculare il germe della divisione, della sanzione per le posizioni pubbliche assunte, di un apparato statale pronto a mettersi in moto per individuare nemici interni. Sarebbe il primo passo per quello che Nathan Sharansky, in un fortunato libro di vent’annifa, definiva come «società della paura», dove regna la delazione come forma di mantenimento del potere. Si tratta di un tratto comune che individuiamo leggendo le cronache di Russia, Iran e tutti gli altri Paesi in cui la democrazia non esiste o è in regressione. Abbandonare la Georgia al dilagare di questo modello sarebbe dannoso, sia perché la libertà è un valore universale, sia perché dal febbraio 2022 in avanti abbiamo visto quanto l’espansionismo russo, poi, finisca per colpirci in ogni caso. Quello della promozione della democrazia dovrà essere un tema centrale anche nel prossimo quinquennio europeo. L’Unione, infatti, dovrà dimostrarsi in grado di esercitare un ruolo politico per il rafforzamento dei principi su cui essa stessa è stata fondata, una missione purtroppo non sempre realizzata in questi ultimi anni. Ma stavolta, se non dovesse farlo, il fallimento sul piano storico potrà rivelarsi irreversibile.

*Deputato, vice-segretario e responsabile del Dipartimento Esteri di Forza Italia

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