L’avvento dell’analisi del DNA nelle indagini criminali ha segnato una svolta epocale per la giustizia, offrendo agli investigatori uno strumento di precisione quasi assoluta. Oggi la genetica forense è considerata la chiave di volta per risolvere casi intricati, identificare colpevoli e scagionare innocenti. Ma questa tecnologia, celebrata come infallibile, è davvero priva di ombre? E soprattutto: è giusto che una sola corrispondenza genetica possa bastare per decidere il destino di una persona?
Il DNA, grazie alla sua unicità – fatta eccezione per i gemelli omozigoti – permette di associare un individuo a una traccia biologica rinvenuta sulla scena del crimine. Sangue, saliva, capelli o pelle, anche in quantità minime, possono diventare la chiave per chiudere un’indagine. La forza di questa prova risiede nella sua capacità di escludere o identificare un sospetto con una precisione statistica che la giurisprudenza italiana considera “prova piena”, come ribadito recentemente dalla Cassazione: l’esito dell’indagine genetica, se condotto secondo rigorosi protocolli scientifici, può da solo fondare una condanna, senza necessità di ulteriori elementi convergenti.
Tuttavia, la storia giudiziaria recente insegna che la realtà è più complessa. La procedura di raccolta, la conservazione dei campioni, la possibilità di contaminazioni accidentali o errori umani possono minare la solidità della prova genetica. In presenza di campioni misti, la lettura dei dati può diventare incerta, lasciando margini di errore che non possono essere ignorati. Non solo: la presenza del DNA di un soggetto su una scena del crimine non equivale automaticamente a colpevolezza. Il trasferimento secondario – ovvero il passaggio indiretto del materiale genetico tramite oggetti o altre persone – è un fenomeno riconosciuto, così come la possibilità che il DNA sia stato depositato in tempi e modi del tutto innocenti.
Questi limiti hanno alimentato un dibattito acceso tra scienza e diritto. Se da un lato la Cassazione ha più volte ribadito che il DNA, quando analizzato correttamente, rappresenta una prova definitiva, dall’altro la comunità scientifica e parte della dottrina giuridica invitano alla prudenza. Il rischio, sottolineano, è quello di affidare la decisione giudiziaria a una sola evidenza tecnica, senza un adeguato controllo critico e senza inserirla in un contesto probatorio più ampio. La mitizzazione della prova genetica ha portato a casi di condanne poi rivelatesi ingiuste, spesso a causa di errori procedurali o interpretazioni affrettate.
La giustizia, infatti, non può prescindere da una ricostruzione logica e coerente dei fatti, che tenga conto di testimonianze, alibi, moventi, impronte digitali, immagini di videosorveglianza e altri elementi materiali. Affidarsi esclusivamente al DNA rischia di offrire una visione parziale e potenzialmente ingiusta, oscurando aspetti fondamentali dell’indagine e aprendo la porta a errori giudiziari. Gli esperti sottolineano l’importanza della trasparenza, della ripetibilità delle analisi e della possibilità di controperizie, ribadendo che la responsabilità finale resta sempre umana.
La domanda resta quindi aperta: è giusto che una corrispondenza genetica sia sufficiente per condannare una persona? A questo e altri interrogativi prova a rispondere il “Canale 122 – Fatti di Nera”, con la sua programmazione giornaliera dedicata al crime, basata su approfondimenti e inchieste.
Ilaria Sula, Depistaggi e narrazioni postume: il tentativo di cancellare la vittima anche dopo la morte

L’omicidio di Ilaria Sula ha scosso profondamente l’opinione pubblica per la sua brutalità e per i tentativi di depistaggio messi in atto dopo il delitto. La giovane è stata uccisa a coltellate dall’ex fidanzato Mark Samson.
Dopo aver accoltellato la ragazza, Samson non si è limitato a nasconderne il corpo in una valigia. Ha orchestrato una macabra messinscena digitale, usando il telefono della vittima per inviare messaggi a parenti e amici, fingendo che fosse ancora viva. Un depistaggio che non mirava solo a eludere la giustizia, ma a negare l’esistenza stessa di Ilaria, prolungando il dolore dei suoi cari in una spirale di menzogne.
Subito dopo l’omicidio, Samson ha riposto il cadavere in un trolley, trascinandolo in pieno giorno fuori dal condominio romano sotto lo sguardo inconsapevole di due passanti. La freddezza è proseguita con una sosta in tabaccheria per comprare sigarette, il corpo ancora nell’auto. Questo trattamento del cadavere – ridotto a oggetto ingombrante – rivela un disprezzo che non si ferma alla morte fisica: l’obiettivo era cancellare ogni traccia umana di Ilaria, trasformandola in un fardello da eliminare.
Nei giorni seguenti, Samson ha usato lo smartphone di Ilaria per simularne la sopravvivenza. Ha scritto alla migliore amica, Maria Sofia Lombardo, inventando incontri con un misterioso ragazzo conosciuto “per strada” e viaggi a Napoli mai avvenuti. Ha persino risposto a un utente di Tinder, intrattenendo conversazioni a sfondo sessuale. Questa strategia aveva un duplice scopo: depistare le indagini e sminuire l’identità della vittima, dipingendola come una ragazza volubile pronta a sostituire l’ex con sconosciuti.
Il depistaggio è diventato un’arma psicologica. Mentre i familiari di Ilaria cercavano disperatamente notizie, Samson li ha ingannati con messaggi rassicuranti, alimentando una falsa speranza che ha reso il lutto ancora più straziante. L’incontro con Maria Sofia Lombardo, con cui ha condiviso una piadina parlando dei “problemi di coppia”, dimostra come abbia sfruttato le relazioni personali della vittima per consolidare la sua narrazione.
Il caso Sula non è isolato. I familiari delle vittime di femminicidio subiscono spesso una seconda violenza da parte di un sistema che minimizza i reati e ritarda la giustizia. Le bugie di Samson hanno replicato questo schema: prolungando l’incertezza, hanno costretto i parenti a vivere in un limbo tra illusione e realtà, aggravando il trauma.
Il depistaggio postumo non è un semplice tentativo di fuga. È una forma di violenza simbolica che nega il valore della vittima, trasforma il lutto in uno spettacolo e inchioda i sopravvissuti a un interrogativo senza fine: cos’è vero? Nel caso Sula, come in molti altri, la verità giudiziaria potrà forse accertare i fatti, ma non restituirà ai familiari il diritto a un addio senza inganni.