“In un contesto umanitario disastroso e con un sistema sanitario ormai al collasso, l’ospedale di El-Muglad, nello Stato del Kordofan Occidentale, continuava a offrire assistenza sanitaria a molti cittadini sudanesi, tra cui numerosi bambini. Secondo un rapporto pubblicato dall’UNICEF a metà aprile 2025, due anni dopo l’inizio del conflitto tra l’esercito sudanese e le Forze di Supporto Rapido (RSF), il solo anno 2024 ha registrato 49.000 casi di colera e oltre 11.000 casi di dengue, con un’incidenza del 60% su donne e bambini. L’organizzazione sottolinea che le epidemie peggiorano con l’arrivo della stagione delle piogge, a causa della contaminazione delle acque, del degrado dei sistemi igienico-sanitari e dell’intensificarsi degli spostamenti forzati della popolazione.
Il 21 giugno 2025, in questo scenario già drammatico, l’ospedale di El-Muglad è stato colpito da un attacco aereo condotto tramite drone, attribuito all’esercito sudanese. Il bombardamento ha causato 40 vittime, tra cui bambini e personale medico, come dichiarato dal direttore generale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, Tedros Adhanom Ghebreyesus, il 24 giugno. Il ramo sudanese dell’OMS ha confermato la morte di sei bambini e cinque operatori sanitari, oltre a gravi danni inflitti all’infrastruttura ospedaliera. L’attacco ha suscitato forti condanne. L’organizzazione per i diritti umani “Avvocati d’emergenza” ha accusato l’esercito sudanese di aver deliberatamente colpito l’ospedale, violando il diritto internazionale umanitario. Il comunicato evidenzia che la struttura ospitava un’unità di dialisi essenziale, utilizzata regolarmente da pazienti cronici. Anche il collettivo locale “Cellula d’emergenza di El-Muglad” ha attribuito la responsabilità all’esercito, parlando apertamente di un crimine di guerra e ricordando precedenti attacchi a campi profughi, come quello di Abou Zabad, che causarono numerose vittime. Le Forze di Supporto Rapido, da parte loro, hanno denunciato la morte di 34 civili, tra cui operatori sanitari, e definito l’attacco un atto barbaro. Sul piano politico, il potere militare, in carica dal colpo di Stato dell’ottobre 2021, è attraversato da forti tensioni interne. Il primo ministro designato, Kamil Idris, sta cercando di formare un governo, ma la sua proposta di raccogliere solo nomi e curriculum senza assegnare portafogli ha generato malcontento. Diversi leader politici e militari hanno espresso la volontà di controllare ministeri chiave come Finanze e Miniere, storicamente affidati ai gruppi armati. Alla riunione hanno partecipato figure di rilievo come Mohamed El-Jakoumi del Partito Unionista Originario, Abu Aqla Kikil delle Forze dello Scudo del Sudan, e Minni Arko Minnawi del Movimento di Liberazione del Sudan. Minnawi, profondamente irritato dopo aver saputo che Kikil ed El-Jakoumi sarebbero stati nominati di nascosto nel Consiglio Sovrano, ha lasciato l’incontro parlando in lingua zaghawa con il suo vice, un gesto che ha evidenziato il malcontento della sua comunità. Accuse persistenti indicano l’esistenza di discriminazioni etniche all’interno dell’esercito, che impedirebbero a gruppi come Zaghawa, Massalit e Four di accedere ai vertici militari, venendo identificati con il codice “MFZ” nei registri dei servizi segreti. Per calmare le tensioni, il capo dell’esercito Abdel Fattah al-Burhan ha inviato due alti funzionari dell’intelligence, i generali Hassan Al-Ballab e Mohamed Abbas Al-Labib.
Questi hanno suggerito che i movimenti arabi del nord e del centro potrebbero rimpiazzare quelli insoddisfatti, pur ammettendo il fallimento delle operazioni militari, nonostante il supporto logistico ricevuto: 1.800 veicoli e 420 milioni di dollari. Si è aperta anche una guerra mediatica intorno al campo di Port-Sudan, con la fuga di documenti riservati e resoconti di incontri turbolenti. Il leader Minnawi ha accusato pubblicamente, il 24 giugno, una campagna di diffamazione orchestrata tramite falsificazione di verbali, definendo su X (ex Twitter) queste manovre “una tecnica vile per assassinare le reputazioni”. Sul fronte militare, l’esercito sudanese e i suoi alleati hanno subito pesanti sconfitte. L’11 giugno, su ordine di Gibril Ibrahim del Movimento per la Giustizia e l’Uguaglianza, alcune forze alleate si sono ritirate senza combattere dal triangolo di confine tra Sudan, Egitto e Libia, come gesto di protesta contro la loro emarginazione dal potere. L’esercito ha presentato il ritiro come una strategia difensiva, ma è stato percepito come un indebolimento, specialmente nella regione di Fasher, capitale del Darfur Settentrionale. Già il 29 maggio, l’esercito aveva subito gravi perdite a Umm Kurdufan e perso il controllo di Dubeibat, nodo strategico tra Sud e Ovest del Kordofan. Le Forze di Supporto Rapido hanno poi annunciato la conquista di Khoui, della zona di Hamadi nel Sud-Kordofan e di Umm Sumeima, a ovest di El-Obeid. Secondo i loro comunicati, avrebbero ucciso 800 soldati, distrutto mezzi blindati e catturato un vasto arsenale in questa serie di offensive.”
Così in una sua analisi Pierluigi Sabatini, Presidente di Geocrazia.