Barbara Fabbroni, psicologa, giornalista e scrittrice, oltre che anima di Crime Caffè, un progetto multimediale culturale e formativo per sviscerare i casi di cronaca più discussi e trasformare la violenza in consapevolezza. E qui la psicoterapeuta e criminologa si racconta.
“Crime Caffè nasce da un’urgenza profonda: quella di restituire umanità a ciò che troppo spesso viene consumato come intrattenimento. Come psicoterapeuta ho trascorso anni ad ascoltare il dolore – quello delle vittime e dei familiari. A un certo punto ho sentito che la sola formazione tecnica non bastava più. Serviva uno spazio altro, un luogo simbolico e reale insieme, in cui il sapere potesse incontrare l’emozione, la riflessione, l’arte, la consapevolezza.
Crime Caffè è nato così: come un tempo sospeso in cui ci si ferma, si ascolta, si comprende. Non per assolvere, non per giudicare, ma per illuminare ciò che normalmente resta nel buio. La mia esperienza clinica ha dato struttura e rigore, quella criminologica ha fornito metodo e responsabilità; l’arte ha fatto il resto, permettendo alle storie di arrivare non solo alla mente, ma anche alla coscienza”.
Nei suoi romanzi il tema della violenza non è mai solo narrativo, ma diventa occasione di riflessione e consapevolezza. Quanto c’è di Crime Caffè nella sua scrittura e quanto, invece, la narrativa le permette di arrivare dove la formazione tradizionale non riesce?
“C’è moltissimo di Crime Caffè nei miei romanzi, perché entrambi nascono dallo stesso sguardo: quello che rifiuta la semplificazione. La narrativa, però, mi consente qualcosa che la formazione tradizionale spesso non permette: di abitare le zone grigie. Nei romanzi posso rallentare, indugiare, entrare nei silenzi, nei pensieri non detti, nelle contraddizioni. La formazione insegna, la narrativa accompagna. La prima spiega, la seconda fa sentire. E quando si parla di violenza, sentire è fondamentale: solo ciò che attraversa emotivamente lascia una traccia duratura. La scrittura diventa così una forma di educazione e consapevolezza emotiva profonda, capace di insinuare dubbi, domande, consapevolezze che nessuna lezione frontale potrebbe imporre”.
Il commissario Emma Antinori è una figura atipica nel panorama delle detective letterarie. In che cosa differisce dalle investigatrici più classiche e quanto il suo sguardo umano e psicologico rappresenta una scelta narrativa consapevole rispetto al genere crime?
“Emma Antinori non è un’eroina infallibile, né una detective “di facciata”. È una donna che porta addosso non solo il peso delle storie che incontra ma anche quello del suo vissuto, che sa che ogni indagine è anche una ferita che si riapre. La sua differenza sta proprio lì: non cerca solo prove, cerca senso, significato oltrepassando la razionalità. Il suo sguardo psicologico è una scelta profondamente consapevole rispetto al genere crime. Emma non separa il fatto dalla persona, il reato dalla storia, la vittima dal contesto. Sa che dietro ogni scena del crimine c’è un universo emotivo e relazionale che chiede di essere letto. In questo è distante dalle investigatrici più classiche: non domina il dolore, lo attraversa, lo comprende, lo interpreta con preparazione e studio, con ricerca e oggettività. E questo la rende fragile, ma anche profondamente vera”.
Dopo il successo del primo Crime Caffè ad Arezzo, il progetto si prepara a diventare itinerante e a coinvolgere scuole, università e spazi pubblici. Che ruolo attribuisce al dialogo dal vivo e alla dimensione collettiva nella prevenzione della violenza?
“Il dialogo dal vivo è insostituibile. Ogni vita vera è incontro con l’altro all’interno di un esserci dove grazia e mistero si declinano in un viatico di consapevolezza e conoscenza. È lì che avviene qualcosa che nessun contenuto digitale può replicare: lo sguardo che si incrocia, il silenzio condiviso, la domanda che nasce spontanea. La violenza si previene anche – e soprattutto – creando comunità consapevoli, capaci di nominare il disagio prima che diventi gesto. Crime Caffè itinerante vuole essere questo: uno spazio culturale mobile, un luogo di parola in cui la violenza non venga spettacolarizzata ma compresa. Nelle scuole, nelle università, negli spazi pubblici, la dimensione collettiva diventa cura: perché riconoscersi nelle storie altrui è il primo passo per non ripeterle”.
Nei suoi libri il confine tra vittima, colpevole e osservatore spesso si fa sottile. È una scelta narrativa che riflette anche la sua esperienza clinica e criminologica?
“Assolutamente sì. Nella mia esperienza clinica e criminologica ho imparato che le categorie rigide raramente spiegano la complessità umana. Esistono vittime che portano colpa, colpevoli che sono stati vittime, osservatori che con il loro silenzio diventano parte della storia. Rendere sottile quel confine non significa confondere le responsabilità, ma restituire verità. La narrativa mi permette di mostrare come il male non sia quasi mai un evento isolato, ma il risultato di relazioni, omissioni, contesti, vissuto. È un invito a guardare oltre l’etichetta, senza mai perdere il senso etico”.
Se dovesse indicare un messaggio chiave che unisce i suoi romanzi e Crime Caffè, quale sarebbe il punto di consapevolezza che spera rimanga a chi ascolta o legge le sue storie?
“Che il buio non va negato, ma attraversato e compreso. Il messaggio che unisce tutto il mio lavoro è questo: la conoscenza è un atto di responsabilità, e raccontare è una forma di cura. Spero che chi legge o ascolta le mie storie porti con sé una consapevolezza semplice e scomoda insieme: la violenza non nasce all’improvviso, ma cresce nei silenzi, nelle relazioni sbagliate, nelle parole non dette. E finché qualcuno avrà il coraggio di raccontare, di ascoltare, di restare – davvero – nessuna storia sarà solo cronaca, e nessuna ferita completamente inutile”.




