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Angelo Burzi, l'ultima mail prima di suicidarsi: "Così non reggo, è la mia protesta", grido d'accusa alle toghe

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Filippo Facci
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Che cos'è un uomo? È il suo casellario giudiziario, ovvio: quando morì Giulio Andreotti- un pezzo di storia d'Italia, da scriverci un'enciclopedia - Il Fatto Quotidiano titolò soltanto «Andreotti morto, "Ebbe rapporti organici con la mafia"». Stop. Fine. Quindi che cos'è un uomo? Nel caso di Andreotti, è un casellario da incensurato. Stop. Fine. Anche nel caso del consigliere regionale Angelo Buzzi, suicidatosi pochi giorni fa, il casellario è da incensurato: aveva una condanna passata da più gradi ma non ancora in giudicato (non definitiva, cioè) e qui in Occidente sui defunti non usa sentenziare: «per morte del reo», si dice, un cavillo da garantisti che peraltro estingue il reato che è cosa res iudicata.

 

 

 

Marco Travaglio, invece, è l'unico soggetto sinora nominato che il casellario non ce l'ha pulito per niente, data la sua attitudine diffamatoria: però, martedì, ha scritto che si stanno facendo troppe scene solo perché questo Buzzi si è suicidato dopo una condanna in Appello (in primo grado era stato assolto) ottenuta dopo otto anni, ergo era umanamente stremato all'idea di dover aspettare un nuovo giudizio di Cassazione che a 73 anni avrebbe potuto togliergli l'unica fonte di sostentamento, cioè il vitalizio. La condanna insomma non era definitiva ma l'ha resa definitiva Travaglio, spiegando come e perché fosse colpevole. Ieri, oltretutto, è stata resa nota una lettera che Buzzi aveva scritto prima di accomiatarsi, e tra poco ne daremo conto: prima, però, vorremmo accoratamente annunciare che alla prossima morte di Marco Travaglio - probabilmente non lontana per come porta male i suoi anni, e favorita dalla quantità di ex indagati che dall'oltretomba gli tirano i piedi - noi ci recheremo rispettosamente nel luogo dei suoi arresti cimiteriali, dicasi camposanto, e rivestiremo la sua lapide con tutte le sentenze di condanna che si è guadagnato negli anni, comprese le diffamazioni sfangate con la prescrizione. Perché un uomo è il suo casellario giudiziario, e forse anche di più: piazzeremo anche le ricevute dell'Hotel Torre Artale di Trabia (anno 2002) e del residence Golden Hill di Altavilla Milicia (2003) dove lui andò in vacanza con un tizio poi condannato per favoreggiamento di un mafioso già prestanome di Provenzano, uno che peraltro gli fece avere uno sconto sulla villeggiatura. Dopodiché, siccome sulla lapide non ci sarà più spazio (sarà piccola perché la bara sarà smilza, considerando il fisico da malato terminale dell'inumato) allora ripiegheremo sulla sovrastante croce tombale, alta e fiera come una forca (Travaglio è cattolico) laddove appenderemo proprio le pagine della lettera lasciata dall'ex consigliere Angelo Buzzi, scritta, ha precisato, affinché ciascuno ne facesse «l'uso che crede». E così crederemo.

 

 

 

L'agenzia Ansa ha diffuso solo frammenti della lettera, che ne esce disumanizzata. Buzzi si dice innocente, ripercorre la Rimborsopoli e la sua condanna per peculato a tre anni (in Appello) e si dice «non più in grado di tollerare la sofferenza, l'ansia, l'angoscia che in questi anni ho generato a me stesso e alle persone che mi sono care. Esprimo la mia protesta più forte interrompendo il gioco, abbandonando il campo in modo definitivo». C'è di peggio dei malanni fisici che l'avevano minato, «e la giustizia è un esempio del peggio». Buzzi definisce il suo gesto «l'unica strada da me ancora percorribile... la riduzione e la cessazione futura del danno». Poi se la prende coi giudici d'appello e con «una sentenza iniqua e politicamente violenta» inseguita dal «vero cattivo della storia», colpevole perché si appellò pur conoscendo la verità, sinché «trionfò pochi giorni fa». Buzzi ha invece parole buone per la presidente del primo grado, Silva Bersano di Begey, morta lo scorso febbraio, «che svolse il suo non semplice ruolo leggendo le carte, sentendo coloro che avevano titolo, distinguendo le spese per la loro inerenza al mandato dei consiglieri, condannando severamente i colpevoli ed assolvendo gli altri, fra i quali io stesso», con ciò «facendo il giudice». E qui ci fermiamo. Non giudichiamo. Non pensiamo che un suicidio abbia trasformato un uomo in un innocente perseguitato: se Buzzi fosse innocente non lo sappiamo, ma che fosse perseguitato non c'è dubbio. Era perseguitato da questa giustizia e dai suoi tempi infami e insopportabili, problema di cui i magistrati non si sentono mai parte: e a Torino, paradossalmente, i tempi della zgiustizia sono tra i più veloci (tra i meno lenti) dell'intero Paese. Nota finale: il procuratore generale di Torino ha detto che Buzzi aveva patteggiato un anno per dei reati «che evidentemente non riteneva di poter contestare». Ci prende simpaticamente per scemi: come se non sapessimo come funzionano molti patteggiamenti, come se non sapessimo che spesso si patteggia, da noi, non perché ci si ritiene colpevoli, ma solo per uscire dal tritacarne. Quella macchina infernale, cioè, che potrebbe impiegare lustri o decenni per dimostrare un'innocenza: ma frattanto distruggendoti la vita, gli affetti, il lavoro, il portafoglio, la reputazione. Angelo Burzi non ne aveva voglia. 

 

 

 

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