Torino, il nonno stupratore salvato dalla giustizia lumaca
Non c'è un verso buono per prendere questa storia. Come la giri, ti sale il sangue al cervello. Da una parte un papà-orco (che diventa pure un nonno-orco): trent' anni di abusi, violenze sessuali, anche di gruppo, soprusi, ricatti. Trent' anni di incubo. Dall'altra la lentezza atavica di una giustizia che si fa sfuggire ogni cosa, che s' ingarbuglia e perde tempo e allora perde significato. Torino. È il 2006 quando una donna trova il coraggio di denunciare il padre. Lei di anni ne ha 43: è da quando era una bimba che è «ridotta a una condizione di sudditanza» con i maltrattamenti, gli stupri, le vessazioni. Ogni volta che prova a ribellarsi, la famiglia la isola. Decide di darci un taglio quando l'uomo prende di mira la sua bambina. Le forze dell'ordine restano impiegano mezzo secondo a far scattare le indagini. E si apre un vaso di Pandora degli orrori che la metà basta. Sedici anni fa, c'è ancora tempo per ottenere giustizia. E infatti, in un certo senso, questa arriva: nel 2010 il padre-padrone viene condannato a undici anni e sei mesi di carcere dal tribunale di primo grado.
È qui che la vicenda si complica. Come raccontano le pagine locali de La Stampa, comincia un giro di faldoni e rimandi e sentenze e tempi morti che finisce, oggi, con una sentenza (di condanna) passata in giudicato e però l'impossibilità di eseguire la pena. Passano otto anni e non succede nulla. In ballo c'è l'appello che, nel 2018, conferma nove anni e quattro mesi di carcere. Gli avvocati ricorrono in Cassazione, ma sanno già (adesso) che siamo fuori tempo massimo: il loro assistito ha compiuto settant' annie, per legge, è altamente improbabile che possa finire in prigione. Nel 2019 la Corte di Roma rimanda il caso in appello, altri mesi che se ne vanno. Ancora una condanna. E ancora una richiesta alla Cassazione che, ora, la respinge. Il risultato è che lui, il papà-nonno-orco, oggi ha 86 anni ed è (spiegano gli addetti ai lavori) «affetto da gravi patologie incompatibili con la detenzione». La decisione c'è, presa nero su bianca, bollata con tutti i sacri timbri dei pm e dei giudici e dei cancellieri. Nel fascicolo si legge che si tratta di una vicenda «tra le più sconvolgenti che sia dato esaminate in sede processuale»: però metà dei capi d'accusa (gli abusi sulla nipote, i maltrattamenti, le singole angherie alla figlia) è andata in prescrizione, rimane il reato di violenza sessuale di gruppo del 2006, quello che ha fatto arrivare la denuncia, ci si aggrappa a ciò che resta. Con l'amaro in bocca che non può finire così. Per colpa di un sistema troppo lento e lacunoso, anche quando la verità è scritta su un foglio di carta nel cassetto di un magistrato. Siamo garantisti con tutti e lo saremo sempre, ma non vuol dire che i mascalzoni debbano farla franca.