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Se i tribunali vogliono fare la morale: le distorsioni della giustizia italiana

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Iuri Maria Prado
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Che cosa c'entra il processo Ruby ter, uno dei rivoli del moralismo porno-guardone che faceva della casa di Berlusconi un centro di raccolta di bambine prostitute, con il processo Trattativa bis, quello della Mafia uscita dalla porta di un'aula siciliana e fatta rientrare dalla finestra di una procura calabrese? C'entra, perché in un caso come nell'altro non c'entra nulla l'accertamento delle responsabilità da reato: e in entrambi i casi la giustizia che si incaparbisce in questo modo dimostra di voler perseguire un obbiettivo completamente diverso, vale a dire rimettere a posto la società che si suppone corrotta, immorale, ingiusta.

 

 

 

Sul presupposto erroneo che la giustizia debba fare giustizia, che è un valore che dipende dal giudizio di ciascuno, anziché applicare la legge che vale per tutti, la giustizia malintesa si indispettisce se la responsabilità personale non è provata: e allora processa un'altra volta e un'altra volta, perché non si tratta soltanto di accertare se quello è responsabile, ma di rimuovere un fenomeno, di correggere un malcostume, di estirpare il pezzo di malacarne da un corpo comunitario che deve essere restituito alla sua sanità tramite il processo purificatore in aula giudiziaria. Anche la proliferazione dei capi d'accusa adempie allo stesso compito, prendere di mira l'imputato da ogni punto di vista non solo per farlo fuori a tutti i costi ma appunto perché incriminarlo è la via strumentale ed esemplare per giungere a quel diverso obiettivo: rimettere la presunta società aberrante sulla retta via di una presunta giustizia sociale. Dalla presunzione di innocenza alla presunzione di immoralità.

 

 

 

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