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Arbitrio e Costituzione, i progressisti confondono il "dirittismo" con la libertà

Pietro Di Muccio De Quattro
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Intervenendo in video al Tempo delle donne nella Triennale di Milano, la presidente Giorgia Meloni, sollecitata dal direttore del Corriere della Sera, ha dichiarato che da sempre interpreta la libertà come impegno e citato Giovanni Paolo II, secondo il quale «La libertà non consiste nel fare ciò che ci piace, ma nell’avere il diritto di fare ciò che si deve».

Anche nel discorso programmatico alle Camere, la presidente Meloni attribuì la frase a papa Wojtyla, che gliel’avrebbe detta in un’udienza privata. Ma la frase non è di quel pontefice, bensì del liberale conosciuto come Lord Acton, che ha incarnato il filone del liberalismo etico: «Liberty is not the power of doing what we like, but the right of being able to do what we ought», cioè «Libertà non è il potere di fare ciò che ci piace, ma il diritto di poter fare ciò che dobbiamo». La presidente Meloni ha precisato: «Libertà non è semplicemente avere dei diritti, è dimostrare di essere in grado di fare sulla base dei diritti che si hanno».

La prima proposizione della precisazione è esatta; la seconda, no. Lo stesso giorno, intervistata pure lei dal direttore del Corriere della Sera, la presidente della Corte costituzionale, professoressa Silvana Sciarra, ha dichiarato tra l’altro, che «le capacità devono diventare diritti... le libertà sono il cuore della democrazia... le libertà aprono all’esercizio dei diritti». Anche la presidente Sciarra, come la presidente Meloni, sembra condividere l’idea diffusa, secondo la quale, se non proprio sinonimi, libertà e diritti sarebbero termini in certo modo intercambiabili: un’idea che rappresenta il portato forse più caratteristico e caratterizzante il “progressismo” politicamente inteso.
Il “progressismo” così concepito, che risale indietro nel tempo, ha fatto nascere negli anni più vicini una specifica dottrina giuridica, che altrove ho voluto chiamare “dirittismo”, così definito: «Ogni pretesto genera la pretesa di un diritto». Ma il dirittismo ha poco e niente a che fare con lo Stato di diritto e il costituzionalismo. 

L’Italia ha purtroppo conosciuto e praticato il dirittismo fin dal 1968, persino contro il semplice buon senso, per esempio il 18 garantito e l’esame di gruppo nei corsi universitari, il salario variabile indipendente del lavoro subordinato. Tra l’altro il dirittismo confligge innanzitutto con la libertà perché ne mina il fondamento, consistente nell’eguale trattamento della legge che i Greci chiamarono isonomia e dalla quale derivarono la democrazia, non viceversa; inoltre, fraziona la società in innumerevoli micro posizioni individuali arbitrarie nella definizione formale e ingiustificate nel contenuto sostanziale; infine, contro le migliori intenzioni, “corporativizza” i rapporti sociali ingessandoli a discapito dell’autonomia personale.

Il IX Emendamento (1791) della Costituzione americana afferma che «L’enumerazione di alcuni diritti fatta nella Costituzione non potrà essere interpretata in modo che ne rimangano negati o menomati gli altri diritti conservati dal popolo». Si riferisce ai diritti naturali, non male intesi alla maniera progressista ma bene intesi come consustanziali alla libertà da restrizioni, costrizioni, interferenze, esterne o governative. È la concezione della libertà come nucleo incomprimibile e indivisibile, espansione massima dell’indipendenza e dell’azione individuali, non già come contenitore delle facoltà di agire accordate dal governo e dalle leggi. La libertà non è partecipazione, la libertà è uno spazio libero: all’opposto, il bravo Gaber impartì la lezione sbagliata. Gli usi della libertà sono molti e, se legali, possiamo pure chiamarli diritti, ma la libertà ha un’altra natura, sebbene adoperiamo la parola per dire che un essere umano è autorizzato a fare determinate cose. Nel qual caso caso possiede una libertà. Mentre nessuno ha espresso, in breve, l’essenziale diversità tra la libertà e le libertà-diritti meglio del più grande pensatore liberale del ventesimo secolo, Friedrich von Hayek: «La differenza fra la libertà e le libertà è quella che c’è fra una condizione nella quale quanto non è proibito da norme generali è consentito, e una in cui è proibito quanto non è esplicitamente permesso».

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