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Tante tasse, pochi tagli e il debito sale: tutti gli errori del prof

Monti insiste con la cura del rigore per ridurre la spesa pubblica, ma così manca l'ossigeno: il Pil cala, non c'è crescita e chi compra i nostri titoli non sa se riusciremo a ridare loro i soldi. Ecco perché l'Italia rischia il crac

Giulio Bucchi
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Torna l'incubo spread sull'Italia, e non è un caso. Certo, c'entra il clima generale che sta attanagliando l'Eurogruppo, bloccato dai veti della Germania (che ha bloccato fino a settembre il suo sì al nuovo meccanismo di salvataggio) e dalle incertezze politiche di un'Unione europea che di unito ha ben poco. Lo si vede alla meraviglia in queste ore, con la Spagna sull'orlo del baratro. Situazione prevedibile, eppure l'impressione è che si debba arrivare sempre sul ciglio del burrone prima di fare mezzo passo indietro. Ma la velocità della corsa verso il vuoto è sempre maggiore. Cavalcata spread - A confermarlo l'impennata costante della pressione sui titoli di stato. Oggi il differenziale italiano ha toccato di nuovo, dopo 9 mesi la soglia critica dei 500 punti, con tassi di rendimento al 6 per cento. Il premier Mario Monti si è detto "deluso" perché nonostante il rigore della propria azione di governo non è calato sensibilmente rispetto ai tempi di Berlusconi. Una posizione che denota il limite "filosofico" dei tecnici: tutti impegnati nel tagliare (i servizi più che gli sprechi), nel tassare, nell'incassare, ma assai poco propensi a sostenere la crescita. Parola magica che non vale però solo per il futuro. A suon di manovre recessive, stangate e stangatine (leggi aumento dell'Iva), patrimoniali studiate e minacciate si colpiscono i consumi. Senza agevolazioni alle imprese e alla ricerca, non migliorano né competitività né capacità d'investimento delle aziende. E la produttività, per forza di cose, è destinata a calare con o senza abolizione delle festività. Gli indicatori che ci condannano - Senza crescita, con un Pil in costante diminuzione, non resta che un debito pubblico elefantiaco di suo, arrivato a 1.966 miliardi di euro. Di fronte a cifre come questa, i tagli alla spesa pubblca non basta. E infatti lo spread, che in soldoni rappresenta l'indicatore degli investitori internazionali nei confronti di un paese di cui hanno comprato i titoli di stato, schizza alle stelle. Un piccolo esempio. L'Italia è la meno indebitata a livello totale, considerando cioè debito esplicito e implicito in rapporto al Pil: 146 punti, contro i 192 della Germania e i 195 della Finlandia, due tra i pochi paesi che hanno ancora conservato la tripla A delle agenzie di rating. Sono più indebitate dell'Italia, eppure noi abbiamo un rating sotto la A. Perché? Perché siamo meno affidabili. Il Pil della Germania crescerà dell'1% nel 2012 (stima al rialzo) e la sua disoccupazione scenderà al 6 per cento, il Pil italiano in piena recessione calerà del 2% e la disoccupazione sfiorerà il -10 per cento. In più, consumi in calo del 2,5% e tassazione effettiva (al netto dei furbetti) del 70 per cento. Tutti indicatori che dicono una cosa sola: la Germania, anche indebitandosi, troverà i soldi per ripagare chi compra i suoi Bund. L'Italia, al momento, quei soldi non li ha. E tagli o scudo anti-spread sembrano sempre più una cura placebo quando servirebbero invece medicine amare in dosi da cavallo.

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