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Festival del Cinema di Venezia, trionfano la sinistra e la noia

Nicoletta Orlandi Posti
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Cercasi disperatamente un Fantozzi ragionier Ugo disposto ad andare al Lido di Venezia, prendere la parola ed esprimere, a proposito della Mostra del cinema, il medesimo giudizio sintetico e fulminante con cui a suo tempo venne recensita La Corazzata Potemkin. Non occorre aspettare la fine della kermesse, il 6 settembre. Lo si può fare anche oggi, nel giorno inaugurale. La regola aurea per cui si giudica solo ciò che si è visto, infatti, subisce una deroga qualora le qualità soporifere del prodotto in questione siano di per se stesse evidenti. Temi e protagonisti della Mostra, almeno sul versante italiano, ci gettano già a una prima occhiata in un abisso di autoreferenzialità infinita: Berlusconi, le contraddizioni della sinistra, Alba Rohrwacher, Berlusconi, il ritratto della meglio gioventù, Favino, Mastandrea, ovviamente Pasolini, Berlusconi e poi la mafia e la 'ndrangheta, il che ovviamente ci riconduce a Berlusconi. L'apoteosi della noia la tocchiamo con La trattiva, di Sabina Guzzanti. Un film che, a differenza di quanto si possa pensare, non parla di una ricca vip di sinistra che perde 150mila euro in seguito alle trattative, appunto, con un ciarlatano autproclamatosi genio della finanza. Nulla di autobiografico, insomma. No, il tema è invece il famoso (e fumoso) patto fra Cosa Nostra e lo Stato. Per la Guzzanti, infatti, «il patto stato-mafia è l'atto fondativo della Seconda Repubblica oltre che un fatto storico che ha condizionato enormemente il nostro presente politico. Tutto nasce dal progetto di Licio Gelli, poi ci sono i patti con Berlusconi, l'assenza di un'opposizione politica e il candidato Pd più benvoluto dai berlusconiani diventato presidente del consiglio. Anche Renzi non è altro che il frutto di questo accordo». Se Stato, mafia e Berlusconi sembrano qui praticamente sinonimi, ci si aspetta che almeno, per un film del genere, non si vadano a implorare soldi pubblici, cioè dello Stato, cioè della mafia. E invece no: «Pur essendo favorevole al finanziamento pubblico ministeriale e avendolo chiesto», si è lamentata la Guzzanti, «non l'ho mai ricevuto con profonda gioia dei miei detrattori». Ma allora è vero che la mafia fa pure cose buone. A differenza della Guzzanti, Diego Bianchi, in arte Zoro, ha se non altro il pregio della simpatia. È quindi probabile che il suo primo film da regista, Arance e martello, strappi almeno qualche sorriso. La sinossi, tuttavia, è raggelante: gli esercenti di un mercato rionale in chiusura si rivolgono alla locale sezione del Pd, del tutto impreparata alla bisogna. Ovviamente il tutto ambientato nel 2011, sotto la solita cappa berlusconian-alemanniana. Insomma, ancora non si esce da questa dimensione ombelicale per cui la sinistra fa un film sulla sinistra per spiegare con ironia che una certa sinistra non è così di sinistra. Per riprendere un po' fiato, in ogni caso, non c'è niente di meglio che un film sulla politica italiana. Su un politico, in particolare. Diciamo, che so, uno a caso: Silvio Berlusconi. Imperdibile, quindi, Belluscone di Franco Maresco, un film che trasuda spocchia già solo dal titolo. Trama: un impresario palermitano di cantanti neomelodici, berlusconiano e nostalgico della mafia di un tempo, porta in giro due artisti che vogliono sfondare con una hit dal titolo Vorrei conoscere Berlusconi. Per quanto sembri strano, comunque, la Mostra del cinema non tratta solo del quartultimo premier della Repubblica italiana ma spazia anche su altri argomenti. In Hungry hearts, per esempio, troviamo l'avvincente storia di una donna incinta che va in paranoia dopo i consigli di un guru. Un film imperdibile per i fan di Alba Rohrwacher. Per tutti gli altri c'è invece il Pasolini di Abel Ferrara. Ora nel Bronx, da cui viene il regista, può anche darsi che la vita del poeta, scrittore e regista friulano sia un tema originale, innovativo. In Italia, il pasolinismo è una malattia culturale che si nutre di culto paternalistico per le periferie e i tanti «Io so. Ma non ho le prove», degli intellettuali moralisti di turno. La presenza di Willem Dafoe e qualche reminiscenza de Il cattivo tenente lasciano uno spiraglio di speranza, peraltro subito affossato dalla lettura di Mastandrea e Scamarcio fra gli interpreti. Persino un'opera tutto sommato culturalmente meritoria, come Il giovane favoloso, di Mario Martone, dedicato alla vita di Giacomo Leopardi, non riesce tuttavia a tirarsi fuori dal cono di sfiga che aleggia su tutta la Mostra. Fortuna che nella sezione Classici danno La Cina è vicina, di Marco Bellocchio. Un biglietto per Hercules, grazie. di Adirano Scianca

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