Laura Roveri: "Ho preso 15 coltellate dal mio ex. Lui è già a casa, io avrò la scorta"
«Guardi, è una situazione assurda. Vivo nel terrore, segregata, perché lui adesso abita a tredici chilometri da me. È stato scarcerato, ma allo stesso tempo il comandante provinciale dei carabinieri, su sollecitazione del prefetto di Verona, ha dato la disponibilità ad assegnarmi un servizio di vigilanza, non proprio una scorta, ma qualcosa di simile. Quella persona ha provato ad ammazzarmi con quindici coltellate. È accusato di tentato omicidio con l'aggravante della premeditazione perché per uccidermi si era portato dietro un coltello. E dopo cinque mesi è a casa ai domiciliari in attesa del processo, bello comodo in pantofole davanti alla tivù, con la mamma che gli prepara la minestra». Non riesce a contenere la rabbia, Laura Roveri, la 25enne di Nogara - nella Bassa veronese - che lo scorso 12 aprile, alla discoteca Victory di Vicenza dove stava trascorrendo la serata con alcuni amici, aveva rischiato di morire, vittima dell'aggressione del suo ex fidanzato che non si era ancora rassegnato alla fine della loro storia, Enrico Sganzerla, 42 anni, commercialista, per una incredibile analogia spesso compagno di tennis di Vittorio Ciccolini - l'avvocato veronese che l'estate prima aveva ammazzato l'ex fidanzata, Lucia Bellucci. Sganzerla, dopo due mesi nel carcere di Vicenza e tre in una clinica riabilitativa, ha ottenuto gli arresti domiciliari a Cerea, dai genitori. Appena appresa la notizia, Laura si è sfogata su Facebook: «Volete liberarvi della vostra ex? Nessun problema! Oggi, grazie ai nostri pm, 3 mesi di villeggiatura e sei a casa! Buongiorno Italietta». Decine i commenti, centinaia i «mi piace» a sostegno della sua indignazione. «A breve farò i nomi dei giudici che stanno valutando il mio caso e che hanno commesso errori inconcepibili». Il più clamoroso? «La conclusione della perizia medico-legale alla quale sono stata sottoposta è che i colpi inferti non hanno provocato il rischio di morte. Ma dico, ho ricevuto quindici coltellate alla testa e agli arti superiori. Uno dei colpi, per un millimetro e otto non ha reciso la carotide. Se uno fa una cosa del genere e non attenta alla tua vita, allora domani andiamo tutti in giro a spararci, no? Poi ci tengo ad aggiungere un'altra cosa gravissima». Dica. «Un manipolo di psicologi dei miei stivali ha deciso che dopo cinque mesi questo soggetto si è reso pienamente conto di quello che ha fatto». Quindi nella giustizia lei non ha la minima fiducia. «Assolutamente no. Questo non è il classico raptus di follia. È un tentato omicidio volontario, perché, ripeto, si è portato il coltello da casa. Nonostante si stia parlando da tempo della mia storia e ogni giorno ci siano casi simili, il pm ancora non si è pronunciato sull'aggravante dello stalking. La messaggistica ossessiva, le telefonate compulsive che mi aveva fatto nei due giorni precedenti a quella serata erano un chiaro segnale. Ero stata pure pedinata più volte. È un processo kafkiano in cui devo difendermi dal fatto che non sono morta. In una perizia uno si aspetta di tutto, tranne che ti chiedano se sei andata in vacanza». Non ha mai temuto che la violenza, da verbale, potesse diventare fisica? «Non fino a quel punto». Cosa ricorda di quegli istanti? «Lui che sfodera il coltello e con lucidità mi colpisce più e più volte. Dopo la prima ero già caduta a terra, ma continuava a colpirmi, non si fermava. Ricordo il sangue che usciva dal mio collo e l'aria che mi entrava dentro. Ha lesionato la trachea, ha sfiorato la carotide. Questione di un nulla e ora non ero qui a parlarle. Sentivo che stavo morendo. Se non fosse arrivato il responsabile della sicurezza, la furia omicida di Sganzerla mi avrebbe ammazzata. Sarei morta dissanguata. E questo, dopo cinque mesi, è a casa sua, senza dei controlli così severi come si vuol far credere». Non è controllato come dovrebbe? «È in una bifamiliare su due piani. Lui vive sopra coi suoi genitori. Sotto c'è tutta la famiglia della sorella. Le due abitazioni sono collegate da una porta interna e hanno un unico portone d'entrata. Le forze dell'ordine non credo che possano controllare tutti quelli che entrano ed escono, perché non penso che la sorella non possa portarsi in casa gente. Ma lui secondo me potrebbe pure uscire, se si camuffa. È sconcertante. Ho passato venti giorni in ospedale tra la vita e la morte. Sono stata una settimana con un tubo dentro alla testa». Adesso come sta? «Naturalmente porto ancora i segni di quello che mi è successo. Ho perso sensibilità in gran parte del cuoio capelluto, non posso più lavorare come prima, dato che insegno pilates e yoga e non riesco più a sentire bene tutto il mio corpo». Ha più avuto contatti con gli amici del suo ex? «Nessuno. Anzi, il giorno dopo qualcuno mi aveva scritto per chiedermi se era tutto vero. Pensi che quello, adesso, si è preso una specie di portavoce. Si chiama Sofia. Altro non è che la stessa signora, la chiamo così, che quando ero appena tornata a casa dall'ospedale e pesavo 43 chili dopo 8 ore di operazione alla testa, si era permessa di mandarmi un messaggio privato su Facebook per dirmi che io dovevo imparare l'arte del perdono, che quello che stavo facendo era sbagliato. E pensi che questa ha due figli, e una è pure femmina». Vuol dire qualcosa al suo aggressore? «No. Solo che mi farebbe schifo vederlo a piede libero. Dovrebbe essere sbattuto in galera e andrebbe buttata via la chiave». di Alessandro Gonzato