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Napoli, 14enne seviziato "perché grasso": l'indecente piagnisteo che tenta di far passare i carnefici per vittime

Giulio Bucchi
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Bisogna vedere e rivedere i video della madre e del padre del giovane fermato per aver lacerato il colon di un quattordicenne con un compressore, sentirli farfugliare penosamente, il padre che, a occhi bassi, con una vocina contrita, da vittima, spiega all'intervistatore cos'è e a cosa serve un compressore dell'autolavaggio, «deve essere forte per pulire i tappetini», cerca di sviare, di sminuire, «i pantaloni non sono stati abbassati», «è uno scherzo, qui i ragazzi ne fanno tanti, si tirano l'acqua», sì è colpa del contesto, dell'ambiente, sono tutti un po' così i ragazzini a Pianura, e la madre che urla, ferita, indignata, «non è giusto che paghi mio figlio», perché era «un gioco che non si doveva fare», ma c'erano anche gli altri ragazzi, e comunque «non è un atto di violenza». Vedere e rivedere questi video per addestrarsi a riconoscere l'orrore. Vedere un padre e una madre che invece di provare un senso di vergogna, di colpa, di mortificazione per aver allevato, a 24 anni, quel che si è rivelato un sadico torturatore, lo giustificano, ne stemperano la responsabilità, puntano l'indice contro gli altri che l'hanno tradito, «hanno accusato tutti mio figlio», come dice il padre. Spesso, più per retorica che sul serio, di qualche documento particolarmente forte si dice: «Andrebbe mostrato nelle scuole». La madre dell'aggressore: "Un gioco finito male". Guarda il video Ecco, seriamente stavolta: le interviste ai genitori del sadico di Pianura andrebbero mostrate nelle scuole. Tutti devono vedere a che livello primitivo, tribale, può regredire la civiltà. E non sono solo i genitori. Mentre il quattordicenne è ricoverato in prognosi riservata, il proprietario dell'autolavaggio si azzuffa con i parenti di uno dei violentatori perché il «clamore mediatico» gli impedisce di lavorare. Che disgrazia se un ragazzo muore col suo compressore: non potrà più pulire tappetini. Da quale cavernoso passato escono questi figuri? Come si sono formati, alla periferia di Napoli, questi clan primitivi disposti a ogni penosa sceneggiata, e a chiudere gli occhi di fronte a un ragazzino torturato, pur di difendere i loro figli e guadagni? Vedere e rivedere la madre e il padre, proiettarli nelle scuole, mostrare il loro piagnucolare di «giochi finiti male», la loro impossibilità a pronunciare mezza frase di dolore e compassione per la vittima, paragonare le loro parole, la loro difesa e chiamata in correità del gruppo, a qualunque umana idea di fratellanza, solidarietà, possibilità di convivenza. Ricordarsi di tutte le volte che, specialmente a Napoli, si è tollerato che un criminale fosse rovesciato in vittima, e che a un delinquente fossero tributati onori, o che la legge dello Stato venisse svergognata quale abusiva in un perimetro in cui le cose si risolvono con una faida di quartiere. Come è accaduto nelle manifestazioni di piazza in sostegno di Davide Bifolco, il ragazzino ucciso da un carabiniere dopo essere sfuggito all'alt. In queste strade miserabili l'impunità è garantita perché il clan - usiamo la parola in senso antropologico - annega ogni colpa in un generico degrado assolutorio. Sarebbe bene finirla con la lagna del degrado e addomesticare le belve che farfugliano e inveiscono alle telecamere. di Giordano Tedoldi

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