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L'8 marzo, la violenza e gli stereotipi sulle donne

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Giuliana Covella
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Ogni volta che mi invitano a partecipare a un dibattito, un convegno o una tavola rotonda sulla violenza contro le donne, mi viene - naturale - una riflessione sul significato dell'8 marzo. Giornata che ci apprestiamo a «festeggiare». Ma esattamente cosa si «festeggia»? O meglio, cosa c'è da «festeggiare»? Volutamente e provocatoriamente mi viene da scriverlo tra virgolette, perché - alla luce dell'ennesimo brutale episodio che vede protagonista di un macabro film che si ripete e che accade nella provincia di Napoli - credo che noi donne siamo ancora lontane anni luce dall'essere considerate tali. Mi spiego. Lungi da me snocciolare consulenze (non richieste) pseudo-filosofiche, pseudo-sociologiche o pseudo-antropologiche di bassa lega. Perché credo che, parafrasando un noto romanzo di Leonardo Sciascia, «a ciascuno il suo». Non possiamo essere a tutti i costi tuttologi. Non ci sarebbero giornalisti, magistrati, psicologi, sociologi, medici o infermieri. Ma una riflessione, ripeto, urge su questa ondata di violenza che ormai ci vede protagoniste quasi ogni giorno in ogni forma e in ogni contesto. Comincerei col soffermarmi sul concetto di «tempesta emotiva», che tanto ha fatto discutere negli ultimi giorni. A scatenare il mare magnum delle polemiche è stata una sentenza della Corte di Appello di Bologna con cui i giudici hanno dimezzato la pena a Michele Castaldo, condannato in primo grado a 30 anni per avere ucciso - strangolandola - Olga Matei, l'ex compagna. Omicidio per il quale l'uomo si è visto ridurre la condanna a 16 anni perché considerato - al momento di agire - in preda a una «tempesta emotiva». Per intenderci, a noi comuni mortali, né giudici, né psicologi, né sociologi, ossia non addetti ai lavori, arriva il seguente messaggio: basta avere un po' gli ormoni «in tempesta» e essere giustificati se si ammazza una donna o un uomo, ovviamente. Perché il discorso - sia chiaro - vale per tutti. Perché qui non le facciamo le differenze, beninteso. Perché non siamo femministe della prima ora (né dell'ultima, per la verità), ma persone rispettose dell'altro da sé, che sia uomo o donna. Ebbene alla luce di questa sentenza, che ormai ha innescato la polemica, com'era ovvio che fosse, mi sorge spontaneo un interrogativo: ma anche i tre giovani tra i 18 e i 20 anni che martedì alle 18 nella stazione della Circumvesuviana di San Giorgio a Cremano a Napoli hanno violentato una donna di 24 anni non pagheranno? Perché magari, vuoi vedere che erano in preda a una «tempesta emotiva»? Ho letto dell'arresto dei tre, in seguito ad accurate indagini e soprattutto alla denuncia e al riconoscimento da parte della vittima dei suoi stupratori. Pare che lei li conoscesse, o meglio che le fossero stati presentati da un comune amico qualche settimana fa e che gli stessi «bravi ragazzi» (di sicuro verrà fuori la solita solfa che erano tali, perché «in fondo» hanno «solo» tra i 18 e i 20 anni e anziché a studiare, lavorare, andare in palestra o a fare una passeggiata se ne vanno in giro a stuprare le ragazze nei vani ascensori delle stazioni ferroviarie) avessero già tentato di abusarne una ventina di giorni fa. Martedì pomeriggio, bloccando le porte di un ascensore che non ne voleva sapere di rimanere chiuso, i tre «bravi ragazzi» si sono letteralmente presi ciò che volevano. Perché, parliamoci chiaro, le donne sono ancora considerate un passatempo con cui dilettarsi, specie se ti trovi di fronte a una ragazza minuta e indifesa di 24 anni. Perché le donne sono ancora viste come un pericolo se usano i neuroni come e meglio di un maschio. Peggio ancora se si intendono di calcio o di altri settori per così dire inibiti al gentil sesso. Perché le donne sono ancora quelle che «mica possono fare le professioni prettamente maschili»? Perché sono quelle che, se indossano una gonna più corta o più stretta, o hanno una taglia abbondante di reggiseno, allora sono quelle che «ci stanno», che «la danno facilmente». O ancora, quelle che in un'aula di tribunale se si devono difendere da chi le ha molestate, sono costrette ad alzare la voce per urlare che «no, lei quelle attenzioni non le voleva, né le ha cercate». Ecco, allora mi chiedo, al di là di stereotipi e pregiudizi, cosa ci sarà mai da «festeggiare» l'8 marzo? Qui, ahinoi, siamo ancora all'anno zero. di Giuliana Covella (foto di Alessandro Di Laurenzio)

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