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Lampedusa, la testimonianza: "Il tunisino ubriaco che si è calato i pantaloni davanti a mia figlia di 12 anni"

Salvatore Dama
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«Fitusi! Sono fitusiiiii!» L'eco delle parole di Rosy Matina risuona in tutta la valle. E attira l'attenzione di un gruppetto di migranti che siede a terra, nell'hotspot, all'ombra di un pino. Ridono. Le rispondono qualcosa di incomprensibile. E lei si incazza ancora di più: «Ma vaffanculo! Porci!». Rosy è nata a Lampedusa quarantanove anni fa. Ha avuto questa idea: trasformare il terreno di suo padre in un'azienda agricola. Ma le è andata male. Perché l'appezzamento ricevuto in eredità si trova alla apice Nord del centro di prima accoglienza dell'isola. Proprio dove c'è un buco nella recinzione. Quando l'hotspot esplode, come in questi giorni, i migranti risalgono il promontorio portandosi dietro coperte, materassi, bottiglie di birra, un po' di fumo. E campeggiano nella sua proprietà privata. Ricavandosi delle piccole piazzole relax all'ombra dei fichi d'india.

 

Rosy è una femmina alfa. Capelli neri raccolti con lo chignon, fiori di ciliegio tatuati sulla spalla sinistra e un lettering sul braccio destro. Non si rassegna a questa situazione. Guai a definire gli stranieri che arrivano coi barconi come "dei poveretti": lei si ribella. Mozzica. E intanto ti guida per un tour all'interno dei suoi campi, facendo slalom tra bottiglie spaccate, piatti di carta sporchi, barattoli di tonno sott' olio, materassi strappati e cilindri arrotolati di merda secca. «Guarda qua! Qui mangiano, bevono, dormono, fanno i loro bisogni. C'è spazzatura ovunque! Chi la toglie? Io non la tocco». Alla sommità dei campi terrazzati c'è un manufatto in semi costruzione: «Qui mi sono fermata, non ho fatto più nulla. E come si fa? Sono entrati dentro forzando le serrature, portandosi droghe e donne. Uno schifo!»

Nel 2018 Rosy ha sporto denuncia ai carabinieri: «Avevo venticinque galline, me le hanno mangiate tutte. Pure i capretti. Stessa fine. I maiali no. Ne ho quattro. Quelli non li toccano». I musulmani non mangiano la carne suina. Per la loro religione è impura. «Vieni con me», fa al cronista, «ti faccio vedere un'altra cosa». Attraversando un falsopiano arido e ciottoloso si arriva a una sorta di capanno naturale, formato da piante di fico e pini piegati dal vento. «Mi sono spariti anche quattro cani. Li hanno mangiati. Cucinati. Arrostiti». A conferma del barbecue canino, Rosy mostra i resti del banchetto. «Qui hanno spellato il cane. E lì ci sono ancora i resti». La donna prende una pietra appuntita e, in mezzo all'erba, seleziona alcuni resti dell'animale. Si vedono le ossa della mascella e della spina dorsale.

 

Qualche tempo fa è successo un episodio. «Ero con mia figlia, quattordici anni. Stavamo raccogliendo erba fresca per i maiali. Da dietro a una pianta sono usciti in 12. Erano tunisini. Ubriachi. Ho avuto paura. Ammiccavano. Volevano offrirci dell'hashish. Uno di loro si è abbassato i pantaloni. Davanti alla mia bambina, capisci?». Rosy è agguerrita. «Qui su non posso più salire da sola. Non so mai chi ci trovo. A me non mi tutela un cazzo di nessuno. Ma se trovo ancora qualcuno a casa mia, te lo giuro: gli sparo».

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