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Mario Draghi, il suo problema non è il governo ma il coronavirus: chiusi in casa ma senza vaccino, perché?

Mario Draghi

Alessandro Giuli
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 Il nemico principale di Mario Draghi si chiama coronavirus. Più d'ogni insidia politica è il dèmone cinese, responsabile in Italia di quasi centomila morti, la vera incognita che incombe sul nuovo presidente del Consiglio titolare di una fiducia quasi illimitata intorno ai dossier economici e finanziari. Non è una materia per ex banchieri centrali, la sanità, e qui si parrà la sua nobilitate: il predecessore Giuseppe Conte è scivolato assieme ai poteri speciali proprio sulla variabile pandemica, mostrando alla lunga troppe incertezze accompagnate da un patologico narcisismo mediatico; lo schivo Draghi viene percepito come l'uomo dei superpoteri monetari capace di far riscrivere il Recovery plan come si deve, eppure non basta. Nel Cdm di stamattina emergerà con maggior chiarezza la direzione che il premier vorrà imboccare con i presidenti di Regione e gli scienziati del Cts, invitati a un operoso silenzio stampa in vista della riformulazione dei parametri su cui incardinare le restrizioni sociali.

 

La parola "lockdown" continua a serpeggiare come un cattivo presentimento, sia pure avvolta dal velo cromatico delle (micro) zone rosse preferite a un arancione generalizzato, mentre i governatori con i rappresentanti della manifattura, gli operatori turistici e quelli del commercio invitano Palazzo Chigi a non ripetere le crudeli scempiaggini viste nei confronti degli impianti sciistici serrati per decreto a un passo dalla costosa riapertura. Su questo punto non c'è da dubitare che Draghi saprà giovarsi degli errori altrui da non ripetere.

E tuttavia sappiamo bene che il cuore del problema sta altrove e cioè nella campagna vaccinale: come il resto d'Europa, anche noi siamo in terribile ritardo e si stima che di questo passo non raggiungeremo l'immunità di gregge prima di quattro anni. Non possiamo permettercelo, è ovvio, pur partendo dal presupposto che se oggi fossero a disposizione tutte le dosi necessarie per procedere a passo di carica l'Italia non risulterebbe dotata delle strutture e del personale necessari all'impresa. Ma su questo tema i segnali di discontinuità sono finalmente all'orizzonte: se già il buon senso scoraggiava l'adozione dell'incongruo e dispendioso piano di Domenico Arcuri basato sulle primule dell'achistar Stefano Boeri, con Draghi sopraggiungerà una mobilitazione corale: dalle Forze armate alla Protezione civile, passando da Confindustria che si offre di aprire le proprie fabbriche per immunizzare dipendenti e familiari, il personale sanitario potrà contare su un contributo diffuso che dovrebbe coinvolgere intensivamente gli hub regionali, le caserme e gli stadi, le stazioni e i parcheggi.

 

 

Restano però inevase le medesime e sempre più ricorrenti domande: dove sono le dosi previste e perché, invece di correggere al rialzo le ordinazioni, ci troviamo di fronte ad altri tagli di forniture come quelli annunciati da AstraZeneca? E qui torniamo a Draghi, sul quale si stanno addensando aspettative smisurate che esondano dal perimetro istituzionale e rasentano il campo delle virtù risanatrici. Ebbene, ora da lui ci si attende davvero un gran colpo che non sia soltanto organizzativo: dovrà far valere il suo prestigio internazionale, la qualità delle relazioni europee e transatlantiche, nonché un pizzico d'inventiva del genio italico, per ottenere un deciso cambio di passo sulle linee di rifornimento vaccinali.

Alcune indiscrezioni raccolte negli ultimi giorni segnalano che il suo proposito, in parte prefigurato nel discorso programmatico consegnato alle Camere, era proprio questo: infliggere ai cittadini un ristretto arco temporale di reclusione assoluta in cambio di una gigantesca e spedita vaccinazione di massa. Uno sforzo nazionale mai visto, paragonabile ai numeri confortanti esibiti da Boris Johnson in Gran Bretagna e da Israele, una società militarizzata in cui ci si vaccina perfino nei bar di Tel Aviv all'ora dell'aperitivo; ma pure dagli Stati Uniti. Conosciamo l'obiezione: si tratta di nazioni extraeuropee. Appunto: la difesa della salute pubblica e dell'interesse nazionale passa anche dalla rapida correzione della strategia centralizzatrice di Bruxelles che ha preteso ampie cessioni di sovranità verso la Commissione europea senza però evitare ritardi e squilibri.

 

 

Riuscirà Draghi nel miracolo? Domanda forse oziosa, perché lui è stato chiamato dal Quirinale nella (malriposta?) certezza che ogni alternativa fosse peggiore, ma ormai è passata anche l'idea che non possa fallire. Altrimenti resteranno agli atti soltanto i soliti divieti di spostamento e le chiusure a fisarmonica già sperimentati. L'altissima reputazione di Draghi lo precede ovunque, la sua popolarità è attesa al varco dell'esame sanitario.

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