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Luca Palamara, 67 magistrati scrivono a Sergio Mattarella: "Commissione d'inchiesta sulle sue rivelazioni"

Fausto Carioti
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Fatti «troppo gravi per rimanere inesplorati e non verificati». Storie che «imbarazzano varie articolazioni delle istituzioni giudiziarie come mai accaduto in precedenza». Alla cui pubblicazione è seguita «una diffusa inerzia». È passato un mese dall'uscita de "Il Sistema", il libro-intervista di Alessandro Sallusti e Luca Palamara, e «lo scandalo continua a imperversare». La grande indignazione seguita dal nulla. Come se la giustizia italiana fosse fatta di due mondi paralleli, l'etica e la realtà, l'uno indifferente all'altro. Così, ieri, 67 magistrati hanno inviato una lettera aperta al capo dello Stato, «anche nella sua qualità di presidente del Consiglio superiore della magistratura». La rivolta di chi non si rassegna.

 

 

 

La richiesta

Chiedono a Sergio Mattarella di intervenire affinché l'autogoverno dei magistrati non sia più la vergogna che è adesso, l'ordinamento giudiziario recuperi legittimità, siano cacciati «coloro che non sono risultati all'altezza del compito». Mario Draghi e il ministro della Giustizia, Marta Cartabia, non sono chiamati in causa per nome, ma la questione riguarda pure loro. Si può «garantire un funzionamento più efficiente dei tribunali», come ha promesso il premier in parlamento, se nomine e promozioni sono distribuite secondo la logica delle correnti e della connivenza politica anziché sulla base del merito? Il governo intende davvero lasciare la pratica nelle mani dei partiti, incapaci sinora di affrontare la questione? (Due volte, nel 2019 e nel 2020, Mattarella ha chiesto al parlamento una riforma del Csm. Inascoltato). Ci sono nomi noti, tra quei 67. Alcuni sono vittime del "sistema Palamara". Clementina Forleo, ad esempio. Ora è giudice per le indagini preliminari a Roma, ma nel 2007 svolgeva lo stesso ruolo a Milano, dove si occupò della scalata alla Bnl da parte di Unipol, la "cassaforte" del Pds (la famosa intercettazione di Piero Fassino al telefono con Giovanni Consorte: «Ma abbiamo una banca?»). Chiese di mettere agli atti certe telefonate di Fassino e Massimo D'Alema, voleva che fossero indagati. Risultato: ritenuta «un pericolo» e trasferita «di peso» al tribunale di Cremona, come ricorda Palamara. C'è Desirée Di Geronimo, oggi pm nella capitale: condusse l'indagine sul governatore pugliese Nichi Vendola (poi assolto), si trovò isolata nella procura di Bari e chiese il trasferimento.

 

 

 

C'è del marcio

Adesso Palamara ha scoperchiato il verminaio. Non tutto ciò che dice è oro, ovviamente: alcune storie - raccontano i magistrati che facevano parte del suo giro - sono state un po' imbellettate, per vanità del personaggio o altri motivi. Ma il marcio è enorme e fingere che non esista non è possibile. O forse sì? Comunque ci stanno provando e sinora ci sono riusciti. I 67 denunciano che «non solo difettano le doverose iniziative delle autorità competenti ma, sotto il profilo disciplinare, si è anche registrata l'adozione di una generale direttiva assolutoria», col rischio che comportamenti del genere, «anziché essere sanzionati, siano avallati e ulteriormente incentivati». Chiedono persino «l'intervento di una commissione parlamentare di inchiesta, volta a fare definitiva chiarezza». I magistrati che si rivolgono ai politici affinché compiano quelle indagini sul "sistema Palamara" che il Csm non intende fare è un inedito nella storia italiana, a conferma che il degrado delle toghe non è secondo a quello dei partiti. Se ne esce solo tramite «una radicale riforma dell'ordinamento giudiziario», avvertono i firmatari. Da fare, spiegano, attraverso «due punti imprescindibili». Il primo è la selezione dei componenti del Csm tramite elezione di un numero predeterminato di candidati estratti a sorte. Il secondo è la rotazione delle cariche direttive e semi-direttive, «l'antidoto più efficace contro la degenerazione correntizia, che nella distribuzione degli incarichi secondo criteri di appartenenza trova la sua più intensa e frequente espressione». Al capo dello Stato chiedono quindi di provarci ancora, intervenendo per avviare «l'azione di recupero della fiducia di cui l'ordine giudiziario e la gran parte dei magistrati meritano di godere, e della credibilità della giurisdizione». Come dire che oggi non c'è fiducia nelle toghe e che certe loro sentenze non sono credibili. Tutto vero e arcinoto, per carità: ma vederlo scritto lì, controfirmato da 67 giudici e pm, fa una certa impressione. 

 

 

 

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