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Lugi Calabresi, "così i compagni lo mandarono a morte": ecco perché i comunisti sono responsabili del delitto

Gianni Bonina
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In capite venenum. Il j' accuse che Aurelio Grimaldi punta contro la sinistra italiana è tutto nel titolo, "Fango" (Castelvecchi, pp. 260, euro 18,50), dove l'esplicito riferimento alla "macchina del fango" sottende responsabilità, quanto al delitto Calabresi, fino ad oggi sottaciute quando non sono valse come meriti: quelli che il quotidiano Lotta continua di Adriano Sofri rivendicò inneggiando alla giustizia proletaria. Dopo il pamphlet "Il delitto Mattarella", divenuto anche un film-verità, il regista di Mery per sempre che si dice «idealmente e incrollabilmente di sinistra» si scaglia contro la sua area politica di riferimento demistificandone lo spirito rivoluzionario trasmodato nel 1972 nell'omicidio del commissario di polizia di Milano, tre anni dopo il 15 dicembre 1969, giorno della morte dell'anarchico Pinelli che gli veniva imputata nel quadro delle indagini sulla strage di Piazza Fontana. Nella farragine di libri testimoniali e biografici sul caso, questo di Grimaldi si distingue perché inteso non a scoprire nuove verità, ormai tutte storicizzate, quanto a stabilire come l'apparato cosiddetto progressista, che comprendeva ambiti politici, giornali e intellettuali, si fosse reso artefice nonché mandante del delitto, coalizzandosi entro una logica che coinvolgeva anche giudici, avvocati, dirigenti di polizia.

 

 

 

DAGLI ALL'ASSASSINO

Testate di informazione e di opinione come L'Espresso e Il Manifesto guidarono di fatto una campagna di accanimento così tenace e violenta contro il "commissario assassino", additato ingiustamente quale allievo della Cia, gorilla di generali americani, agente dei Servizi segreti, da portare militanti di Lotta continua ad armarsi e uno di loro, Leonardo Marino, a costituirsi sedici anni dopo come autore materiale del delitto. Marino nel '92 scriverà un suo libro per dichiararsi convinto, come tutti, che Calabresi fosse stato davvero l'omicida di Pinelli, giusto il fatto che figure quali Norberto Bobbio, Pier Paolo Pasolini, Dario Fo e altri ottocento intellettuali, avevano firmato un manifesto di condanna nei suoi confronti. Fu quello il momento più basso toccato nella Seconda repubblica dalla cultura italiana più impegnata, che cullò la "strategia della tensione" e istruì la dottrina integralista e persecutoria della sinistra extraparlamentare sostenuta a gran forza dai partiti del cosiddetto "arco costituzionale", compatto nel professare una retorica dell'odio che Grimaldi paragona agli orrori della Colonna infame. La massima aberrazione, una vera vergogna nazionale, si ebbe forse al momento del processo contro il direttore prestanome di Lotta continua Pio Baldelli, querelato dal commissario per diffamazione, un processo che però vide imputato lo stesso Calabresi (pur scagionato già da due giudici) e arrivato al punto da ammettere la riesumazione della salma di Pinelli. Il presidente del tribunale Carlo Biotti finì per essere ricusato e poi cacciato dalla magistratura per aver imbastito un dibattimento nel quale erano annunciati due esiti: l'assoluzione di Baldelli e la condanna di Calabresi. Che però venne ucciso prima della sentenza.

 

 

 

MISSIONE COMPIUTA

Parole grondanti forte esecrazione ha poi Grimaldi circa la primaria partecipazione che la giornalista soubrette Camilla Cederna (artefice del Manifesto degli ottocento intellettuali) offrì nel gettare "fango" su Calabresi. Tornata dal luogo del delitto, in un articolo intitolato «Hanno ammazzato Calabresi», la giornalista ufficiale della sinistra giustizialista e fondamentalista si dilungò con sussiego a parlare della scorta che le era stata assegnata e di quanto i due poliziotti fossero emozionati e felici, oltre che ammirati, di poterle stare vicini, mentre sul cadavere ancora caldo spese solo parole di presa d'atto nel segno di una missione compiuta. Cederna fu la più invelenita, come lo sarà con Leone, ma l'intera stampa di sinistra non ebbe remore nel mostrare le peggiori intenzioni. «La ricostruzione romanzata di quella tragica notte del 15 dicembre 1969, pubblicata su Vie Nuove, il settimanale del Pci, è agghiacciante, vergognosa, ignobile» scrive Grimaldi, che confessa: «Avevo sempre pensato, dalla mia gioventù, che pregiudizi, intolleranza, menzogne e infamità (in una parola: il fango) fossero patrimonio della sola destra fascista. Ero un povero illuso ottenebrato da puerile ottimismo e ingenue idealità». Grimaldi, paladino della sinistra, compie allora atto di resipiscenza ideologica e di revisionismo storico nel momento in cui muove anche la più implacabile requisitoria contro un Gotha che ha preteso di fare la storia e pure di scriverla. 

 

 

 

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