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Covid, il mistero del 1° maggio: "Governo in allerta". Il sospetto: cosa nasconde Roberto Speranza

Claudia Osmetti
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Mascherine sì, mascherine no. Quarta dose ora, quinta a ottobre, vaccino bivalente e green pass (finalmente) da stralciare. Ce l'hanno detto in tutte le salse, dal governo, che dopo Pasqua avrebbero trovato una quadra per il Covid che arretra, ma non scompare. Bene, adesso ci siamo: però di soluzioni lampo, all'orizzonte, non ne appaiono molte. Anzi, semmai è il contrario. La matassa s'ingarbuglia. Ché qui è tutto un «vedremo», «decideremo».
Della serie: vi faremo sapere.

 

 

Che suona un po' come quell'"aspetta e spera" che di buone nuove, diciamocelo, non è mai stato foriero. Prendi le Ffp2: neanche il tempo di levarcele per strada che il ministro Speranza (era la settimana scorsa) gira sui tacchi. «Sono essenziali, sul loro utilizzo al chiuso disporremo passata la festa». Oppure la punturina salva-pelle numero quattro, che per qualcuno rischia di diventare la numero cinque: si farà, non si farà, sarà obbligatoria solo per qualcuno, sarà raccomandata come per l'influenza. Vai a sapere.

Di certo c'è che il primo maggio si allentano (ulteriormente) le regole anti-contagio. Almeno stando al decreto che ha messo in soffitta lo stato di emergenza (ad aprile) e che ha proposto una serie di riaperture graduali. Lo shopping libero, per esempio, e il certificato verde che, tra un paio di settimane, non servirà più manco al ristorante. Ecco, se fila tutto liscio perché tra ripensamenti e valutazioni ulteriori e prudenze generalizzate (per carità, sacrosante: però serve anche un po' di senso della misura) rischiamo di ritrovarci sul groppone quelle limitazioni che da un anno a questa parte, cioè da quando abbiamo iniziato a vaccinarci in massa, stiamo provando a scrollarci di dosso. E poi, signori, raccontiamocela tutta, la storia del coronavirus. Perché d'accordo, Omicron e le sottovarianti.

 

 

La contagiosità alle stelle, la malattia che non si ferma, i medici che fanno ancora i salti mortali. Chi li nega. Ma la situazione non è quella di due anni fa o anche solo dell'anno scorso. Mentre il governo tentenna, ci ripensa, quasi quasi fa retrofront, si barrica dietro il consunto slogan «serve cautela» e paventa l'eventualità di lasciare le cose come stanno, la pandemia va avanti. Però non con la velocità dei mesi scorsi. Siamo onesti. Lo dicono i numeri: ieri (era Pasquetta e i tracciamenti son quel che sono) abbiamo registrato 18.380 nuovi contagi, non è propriamente uno tsunami. I decessi, invece, sono stati 79 e gli ingressi in terapia intensiva appena otto. Ve lo ricordate un anno fa? Quando la gita fuori porta era un'illusione, eravamo ripiombati nei tre giorni di "zona rossa", non erano aperti nemmeno i negozi e in casa ci si doveva tappare entro le 22 perché vigeva ancora il coprifuoco? Il 18 aprile del 2021 di morti per covid, in Italia, ce n'erano stati 251. Quasi quattro volte quelli di adesso. Così per dire.

L'Agenas, l'Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali, sul suo sito compara le fotografie della crisi sanitaria a distanza di anni. Gli ultimi dati disponibili a ieri sera riguardavano il 17 aprile: domenica il tasso di occupazione delle terapie intensive italiane era al 4%, mentre la percentuale di pazienti ricoverati nelle aree non critiche delle nostre cliniche arrivava al 15%. Entrambi quegli indici, nel 2021, erano al 37%. Di cos'altro han bisogno, a Roma, per mettersi a tavolino e procedere con quel piano di riaperture che, tra l'altro, è già nelle carte che proprio il governo Draghi ha firmato a fine febbraio? Nessuno la prende sotto gamba (dopo due anni di pandemonio sarebbe da folli), nessuno gioca a fare l'imprudente. Però ci siamo vaccinati con ciclo completo all'89,98%, siamo tra i migliori Paesi occidentali, se non proprio quelli che guidano la classifica. Però la pressione sugli ospedali non è così drammatica, quantomeno abbiamo visto di molto peggio. Però abbiamo dimostrato di essere responsabili. Cos'altro dobbiamo aspettare? È pure primavera. 

 

 

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