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Illegalità qual è quella legittima che regna in Italia

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Francesco Carella
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In Italia alcune illegalità sono considerate legittime. Infatti, nel nostro Paese si possono occupare scuole e università, bloccare a piacimento la libera circolazione stradale, organizzare rave party su terreni di proprietà altrui, ed essere sicuri- nonostante il codice penale ne contempli il reato- di restare impuniti. E se taluno si azzarda ad eccepire che si tratta di una violazione di legge che in uno Stato di diritto l'autorità ha l'obbligo di contrastare, in men che non si dica verrà accusato dai guardiani del politicamente corretto di essere al servizio di coloro che puntano ad instaurare uno Stato di polizia. Ora, al di là degli aspetti strettamente tecnico-giuridici del decreto anti-rave, vale la pena di cercare di capire le ragioni di lungo periodo che hanno fatto sì che in Italia l'illegalità divenisse legittima.

 


Vi è una data dal forte carattere simbolico da cui occorre partire: il 1° marzo 1968. Da quel giorno occupare un edificio pubblico (la facoltà di Architettura a Roma) e scontrarsi con le forze di polizia divenne "lecita pratica politica e strumento indispensabile - come si poteva leggere nei fogli militanti dell'epoca - per raggiungere la piena democratizzazione del Paese". Nacque, nel corso di quella che viene ricordata enfaticamente dai "reduci" come la battaglia di Valle Giulia, un modo d'intendere il dissenso che nulla aveva a che spartire con le regole della democrazia liberale e che contribuì a porre le premesse per gesti che si fecero sempre più estremi fino a sfociare nel terrorismo e nell'omicidio politico. Nondimeno, i protagonisti di quelle azioni sciagurate per l'élite colta di sinistra non smisero mai di essere considerati "compagni che sbagliano". Si trattava di «un atteggiamento che discendeva - come scrisse lo storico Piero Melograni - da una tradizione politica, quella comunista, che non aveva escluso per gran parte del Novecento la possibilità di fare ricorso alla violenza quale strumento per la conquista del potere».
 

LO SLOGAN DELLE BR
Del resto, l'aberrante slogan scandito negli annidi piombo era "né con lo Stato né con le Br", una posizione che richiamava alla memoria un'altra irresponsabile parola d'ordine, "né aderire né sabotare", lanciata dai socialisti durante il Primo conflitto mondiale e che ebbe, come si scoprì nel Dopoguerra, effetti devastanti sul futuro della democrazia italiana. Alla fine i terroristi furono sconfitti da un Paese che essi avevano dimostrato di non conoscere e che cercava disperatamente, nonostante la loro plumbea presenza, di fare i conti con il proprio tempo e con le nuove sfide poste dalla modernizzazione. L'interrogativo dal quale non si può sfuggire è il seguente: quali minori costi sociali e quali diversi esiti politici avremmo avuto se ci fosse stata fin da subito una razionale e ferma repressione dello Stato e se l'area dell'illegalità diffusa non avesse potuto contare sull'indulgenza (in alcuni casi si trattava di vera e propria simpatia) da parte di una larga fetta dell'intellighenzia di sinistra? Una domanda che ci si dovrebbe porre anche in questi giorni di alta tensione sul decreto anti-rave. Infatti, sarebbe un atto di grave irresponsabilità da parte dell'intera classe dirigente se venissero dimenticati gli errori commessi negli anni bui della nostra storia recente e si sottovalutassero gli effetti destabilizzanti legati all'elevato tasso di ambiguità ancora presente nell'area politico-culturale della sinistra, là dove ci si ostina a volere fare passare come espressioni del costituzionale diritto al dissenso manifestazioni volutamente e palesemente illegali. A tal proposito, vale la pena di ricordare ciò che ripeteva il teorico della "società aperta", il filosofo Karl Popper, ossia che «se permettiamo che venga abbattuta e spazzata via l'avversione per la violenza noi non facciamo altro che sabotare lo Stato di diritto. Stato di diritto che nasce per eliminare la violenza e che è intollerante unicamente con gli intolleranti».

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