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Filippo Turetta? Non parliamo di genere, contano gli individui

Costanza Cavalli
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Gli uxoricidi, i matricidi, i fratricidi, i parricidi non chiamiamoli femminicidi. E ai “bravi ragazzi” non dovremmo dare dei matti. Faccio una premessa, ché di questi tempi non basta un’armatura. Per questa riflessione devo ringraziare due uomini. Silvano Petrosino, filosofo, professore all’Università Cattolica di Milano; mio cugino (non è una canzone di Elio e le storie tese) e la sua tesi sui men’s studies, branca di studi nata nei Paesi anglosassoni negli anni Settanta e che analizza la virilità come prodotto sociale.

Partiamo dai dati e dalla storia: all’ultima inaugurazione dell’anno giudiziario della Cassazione, l’allora primo presidente Piero Curzio sottolineò il calo degli omicidi negli ultimi decenni - erano circa 2.000 l’anno negli anni ‘90- ma aveva definito «un’ombra inquietante» il dato stabile dei femminicidi. Stando ai numeri del “Servizio analisi criminale” del Viminale aggiornati al 13 novembre, da inizio anno, su un totale di 285 omicidi, le donne uccise sono state 102, contro le 101 dell’anno scorso. Di queste, 82 sono state uccise «in ambito familiare/affettivo», 53 «hanno trovato la morte per mano del partner/ex partner».

 

 

 

È SUCCESSO TUTTO L’ALTROIERI

In Italia, le donne hanno avuto il diritto di voto nel 1946; il reato di adulterio, che condannava la donna un anno di reclusione, è stato abolito nel 1968; il delitto d’onore, cioè le attenuanti per l’uxoricida dell’adultera, e il matrimonio riparatore, la norma che cancellava la colpa dello stupratore se sposava la vittima, sono stati abrogati nel 1981. È successo tutto l’altroieri. E noi abbiamo ancora la sinistra che grida al fascismo.

Aver dovuto inserire nel Codice penale il femminicidio, a quasi ottant’anni dall’accesso ai seggi, è la sconfitta più grande. Ma possiamo ridurre gli omicidi che gli uomini compiono ai danni delle donne a una questione di genere? Cioè, vogliamo considerare il femminicidio il più perverso fiume nel delta del patriarcato, della mascolinità tossica o egemone, della violenza, del controllo, della prevaricazione (quantomeno biologica se non millenaria) del maschio sulla femmina?

 

 

 

L’ABISSO DEI RAPPORTI

No. Il genere conta meno dell’individuo e ricondurre l’individuo al genere ci porta fuori fuoco. Quindi “femminicidio” no, “femmina” va bene per le giovenche. “Maschicidio” non lo sentiremo mai, resta “omicidio”. Sempre perla solita solfa che l’uomo è l’unità di misura dell’umano, è la norma, e la donna l’eccezione. E quindi, per favore, cherchez la femme, la “donna”: parliamo del ruolo, e cioè di mogli, madri, spose, fidanzate, compagne, morose, figlie, sorelle. Ci tocca andare nel dettaglio – il reale è un’aggrovigliata trama – perché è nella relazione che si spalanca l’abisso, è il legame il luogo del delitto. Basta rileggere il teatro greco, o la Bibbia, o Shakespeare, o Manzoni, per conoscere le tragedie tra genitori e figli, tra mariti e mogli; e le nostre famiglie disfunzionali diventano auspicabili.

Ha ragione Elena Cecchettin, sorella di Giulia, quando dice che «Filippo Turetta viene spesso definito come mostro, invece mostro non è». Non è malato, non è matto. Ha sofferto. E ne ha dato colpa a Giulia. L’uomo distrugge solo ciò che non può possedere, scriveva Lacan. L’ha spiegato su queste pagine Davide Rondoni: qual è la responsabilità degli adulti? Sono, siamo all’altezza del ruolo educativo a noi connaturato? Avete, abbiamo insegnato che la libertà non è prendere ciò che si vuole ma sta nel rispondere a ciò che non abbiamo deciso? All’infanzia che abbiamo avuto, ai genitori che ci hanno cresciuto, al luogo in cui siamo nati, ai fallimenti che abbiamo subìto. Se siamo convinti che serva, rendiamo più severe le pene, ma non adagiamoci sull’arroganza del pratico e nella convinzione che sia risolutivo: smettiamola di guardare il dito anziché la luna. A furia di banalizzare, a furia di ridurre tutto a sessismo, a furia di non pensare, occhio, perché ci si riesce. 

 

 

 

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