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Se la violenza sugli animali finisce sui social

Simona Bertuzzi
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Fa un freddo becco nella notte di Alberobello addobbata delle ultime luci di un Natale sfarzoso. Una ragazzina smilza vestita in jeans e scarpe da ginnastica poggia il piede sul bordo della fontana dei pesci dove un gatto grigio di nome Grey, fuggito alla routine della colonia felina lì accanto, si è appollaiato ingenuamente attratto da un pesce rosso o dal luccichío dell’acqua gelata.

È un attimo appena ma non serve allungare il tempo per friggersi la coscienza e fare la cazzata più grande. La ragazza solleva la scarpa e sferra un calcio al gattino.
L’animale, che pesa come un piumino e non si aspetta che il nemico sia un’adolescente in braghe di tela e faccina pallida, finisce nella vasca ghiacciata mentre la sua aguzzina grida “ciao amo” alla maniera contratta di adesso, sorridendo all’amico che posta la scena sui social.

Prime reazioni, faccine sbalordite, qualche commento indignato e il vuoto nelle loro teste di giovani stolti che consumano gli ultimi scampoli di una serata annoiata, in cerca di un diversivo sadico. Intanto il gattino muore. Annegato, anzi no, congelato in quei pochi centimetri di acqua che avrà guardato mille volte con la distanza che i felini mettono tra la loro fiera e compulsiva pulizia e qualunque liquido possa servire all’abluzione. Passano le ore, il video è virale, lo vedono tutti ad Alberobello, compresa la signora Catia del bar vicino che accudiva il micio e la colonia da cui proveniva. Un colpo al cuore. Corre come una pazza alla fontana, non si capacita, ma sa già che è troppo tardi. Trova un cumulo di pelo zuppo di gelo e ghiaccio che sembra uno straccio dimenticato lì per caso.

Lo solleva tra le braccia mentre la voce passa di casa in casa. Borbottii, sconcerto, indignazione. Un bimbo piange. Ma perché tanta cattiveria? Naturalmente non ci sono telecamere in zona. Non si trovano testimoni. E però la stoltezza social, che impone a giovani e meno giovani di filmare qualunque prodezza/nefandezza e darla in pasto alla rete e al tam tam vacuo dei social, viene in soccorso della signora Catia e dei volontari che cercano di aiutarla. Questione di poco e grazie allo stesso video virale postato dai ragazzi, la responsabile viene individuata e il suo nome fornito alle autorità per la denuncia. Chiamasi reato, il suo. E qui non siamo nel campo delle chiacchiere, dei like, degli anatemi, dei commenti di circostanza consumati ai tavoli del bar. Qui parla la legge e tocca tenerlo a mente. La consapevolezza poi che il crimine arrivi a poche ore di distanza dall’uccisione di Leone (il gattino cui hanno esploso in faccia un petardo a Capodanno) e dai fatti di Palermo, dove un pitbull di nome Aron è stato bruciato vivo dal padrone senza fissa dimora e senza cervello che s’era stufato di lui per la sua “scarsa socievolezza”, accresce ancora di più lo sconcerto.

Aron è morto ieri dopo essere stato legato a un palo e dato alle fiamme alla maniera che si riservava alle streghe. Troppo gravi le ferite. Troppo lieve la forza di riprendersi e credere che ci fosse una ragione per combattere. Che poi i gatti scaltri si aspettano le malefatte degli umani e tentano di reagire quando le circostanze lo consentono. I cani invece no... subiscono quel che viene dal padrone persuasi che il vuoto sia il tutto e il male una carezza. Il risultato è che abbiamo sulla coscienza tre animali uccisi in pochi giorni. Per taluno non sono niente ma per moltissimi sono un’enormità e sono il segno inconfutabile del soccombere della morale e del bene. La barista Catia che ritagliava gli istanti per dare da mangiare ai suoi gatti... i bimbi che passavano davanti al piccolo Aron e sorridevano di quello scodinzolare matto e disarmante. Tutto volatizzato per “poca socievolezza” e per un “ciao amo” da postare su facebook. La legge parla chiaro e va ricordata ai cretini che compiono questi gesti malvagi convinti che buttare via un gatto sia come gettare un sasso nello stagno. L’articolo 544 bis del codice penale (“uccisione di animali”) stabilisce che “chiunque, per crudeltà o senza necessità, cagiona la morte di un animale è punito con la reclusione da quattro mesi a due anni”.

C’è poi una proposta di legge per inasprire le pene (voluta dalla Lega) che è stata approvata dalla Commissione trasporti e aspetta di venire attuata. Il testo innalza fino a sei anni i limiti della pena per il reato di uccisione, mentre per quello di maltrattamento si arriva fino a 5 anni (oggi si va dai tre ai 18 mesi), ma sempre accompagnati da una multa che può variare dai 5mila ai 30mila euro (attualmente la pena pecuniaria è alternativa a quella detentiva). Qui però il problema è anche un altro. E mi permetto di sollevarlo da quel poco che l’esperienza genitoriale insegna a ognuno di noi. Non so cosa frullasse nella testa vuota del signore di Palermo come dice Michela Vittoria Brambilla di Noi Moderati, «il fatto è talmente grave che si rende necessario l’accertamento della condizione mentale dell’uomo» – ma sui ragazzi e quella incosciente leggerezza di commettere qualunque atto vigliacco o reato senza minimamente pesare l’azione e le sue conseguenze si potrebbero scrivere enciclopedie. Fare-postare-commentare, commentare-postare-fare a ciclo continuo come un droga che consuma e sfibra. Invece sarebbe bastato tanto poco: un genitore che insegna il rispetto delle persone e degli animali. Un amico che non posta la scena sui social, ma le dice “che cazzo stai facendo?” e toglie il gatto dall’acqua gelida. E poi una dose di vita vera: carezzare un cane, giocare a pallone, sfogliare un libro. Quanta prepotente ed esperibile bellezza. Invece di strafarsi di virtuale e pensare che sia un modo giusto per vivere.

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