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Carcere, solo il lavoro salva i detenuti: un piano per il reinserimento

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Emilio Albertario
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Diecimila detenuti in più rispetto alla capienza nei 189 penitenziari di tutta Italia; altri 120mila che scontano la pena all’esterno e 90mila almeno che stanno per andare dietro le sbarre. All’amministrazione dello Stato costano più di tre miliardi di euro l’anno. Numeri allarmanti che descrivono una situazione sempre più in difficoltà nel rispondere al dettato dell’articolo 27 della Costituzione, secondo il quale «le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato». Tutto bello e auspicabile se il tasso di criminalità nel nostro Paese non rimanesse ancora alto, tra reati commessi da italiani e stranieri, ma soprattutto segnato da un forte tasso di recidiva. Per mitigare il fenomeno delle porte girevoli- l’entra/esci di prigione- Cnel e ministero della Giustizia fanno squadra per aprire un canale virtuoso tra carcere e società civile portando il lavoro, la formazione, l’istruzione al centro del progetto che vede protagoniste le imprese, i sindacati e il volontariato.

Accade molto spesso che il lavoro abbia un impatto positivo sulla riduzione dei reati. La presenza di alcuni imprenditori, ancora pochi, nelle nostre carceri è un elemento che fa incontrare domanda e offerta, soprattutto per coloro che hanno pochi mesi da scontare e tornano liberi ma senza mezzi di sostentamento. Un obiettivo ambizioso quello del ministro Nordio e del presidente del Cnel, Brunetta per puntare alla agognata “recidiva zero”. Il riconoscimento del lavoro e della sua giusta remunerazione secondo i contratti collettivi possono contribuire a contrastare la capacità attrattiva della criminalità organizzata. Il carcere e la società che è “fuori” restano due mondi distanti che non riescono a dialogare, diffidenti uno dell’altro. D’altronde l’offerta formativa e rieducativa non è in linea con le richieste di figure professionali e di mestieri, utili ai territori. Ci si mette poi inevitabilmente l’assurda burocrazia italica che blocca ulteriormente gli sbocchi occupazionali. Poche e confuse le notizie sul capitale umano racchiuso nelle 189 carceri sparse in Italia, ci si accorge che di un detenuto su due non si conosce il titolo di studio e che nel segmento degli stranieri arriviamo a due su tre. E ancora: di un terzo della popolazione carceraria non è dato sapere se, dove o quando abbiano mai svolto una attività di lavoro. All’inizio abbiamo parlato di tre tipologie di reclusi: quelli in cella, quelli che sono in esecuzione penale esterna e quelli che stanno per entrare in carcere dopo una sentenza definitiva. Per questi tre stock vanno pensati tre diversi tipi di trattamento. Un universo complicato di quasi trecentomila soggetti, più uomini che donne, che potrebbe essere ben trattato al fine di un reinserimento nel mondo del lavoro, facendolo confluire in un enorme database informatico a disposizione delle reti di imprenditori e delle molte iniziative in grado di creare occupazione.

 

 

Mancano soprattutto le sinergie anche se le idee ci sono state e anche le proposte,ma spesso scoordinate e inutili ai fini di una occupazione, se non proprio stabile, almeno dignitosa. C’è bisogno di spazi per le aule di studio e formazione e di strumentazioni tecnologiche. Ad esempio, quando un grande ente cambia tutti i suoi computer potrebbe usare la buona pratica di donarli ad uno o più istituti penitenziari. L’informatizzazione è il volano del successo di ogni iniziativa destinata a formare nuovi lavoratori soprattutto quelli privati temporaneamente dellalibertà.Anche la Cei con il cardinale Zuppi sottolinea che il tempo sospeso della pena deve essere utilizzato perla riabilitazione e il reinserimento.Tutto questo progetto ha bisogno del sostegno di norme legislative che il Cnel, per sua missione costituzionale (art.99) insieme al ministero della Giustizia sta preparando. E per tenere perennemente acceso un faro sull’emergenza carceri verrà istituito, sempre al Cnel, un segretariato permanente permettere in contatto imprenditori, reti sociali, istituzionali, terzo settore che vogliono puntare soprattutto su una cultura imprenditoriale per chi si prepara a rientrare in pista. Ci troviamo difronte ad un cambio di prospettiva dove le istituzioni mettono alla prova il sistema carcere e il tessuto delleimprese.Ancora un tentativo, per certi versi una scommessa, che si vince tutti insieme dentro e fuori le mura di un carcere.

 

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