Da favorito della vigilia a grande elettore. Il passaggio che ha visto Pietro Parolin entrare in Conclave da Papa e uscirne cardinale, mettendo a disposizione il suo “pacchetto” di voti, è stato probabilmente il frutto di una dinamica iniziata con l’affidamento di alcune importanti missioni diplomatiche vaticane al ministero degli Esteri parallelo della Comunità di Sant’Egidio e portata a termine con lo svuotamento delle competenze della Segreteria di Stato, a cui erano stati tagliati i fondi.
Simbolicamente, la missione di pace a Mosca, nel 2023, Papa Francesco l’aveva affidata al cardinal Matteo Zuppi, che peraltro non era riuscito a cavare un ragno dal Cremlino visto che era stato snobbato dal presidente russo Vladimir Putin, il quale aveva ritenuto di passare la pratica al suo consigliere, Yuri Ushakov.
In realtà, da entrambe le parti, quella missione aveva rappresentato un atto di sfiducia verso la politica estera della Santa Sede. Da un lato, il defunto Pontefice aveva accusato la Nato di abbaiare ai confini dell’ex impero sovietico e di aver provocato la guerra con la «martoriata» Ucraina. Dall’altro, c’erano le Chiese locali, i cattolici ma anche gli ortodossi di Kiev che si erano staccati dal Patriarcato di Mosca, ben consapevoli che il progetto di conquista del Russkyi Mir riguarda non solo i territori dell’ex Urss, ma punta all’affermazione della “Terza Roma” in antitesi alla Santa Sede.
Parolin, le voci dai sacri palazzi: "Favorito? Anche troppo"
Il Papa riposa a Santa Maria Maggiore, la domenica romana è piacevole, il sole stende sulle rive del Tevere un te...Conciliare le due posizioni senza cadere nell’ambiguità era un’impresa impossibile, considerando che il desiderio di Francesco di recarsi in viaggio apostolico in Russia era stato più volte respinto. Non lo si può imputare certo a Parolin, che dell’Ostpolitik vaticana si era dovuto fare suo malgrado fedele interprete.
In questo scenario era entrata precedentemente anche l’Iberoamerica, con la visita del Papa a Cuba fra il 19 e il 22 settembre 2015 e il successivo incontro, il 14 febbraio 2016 all’aeroporto dell’Avana, fra il Vescovo di Roma e Kirill, patriarca ortodosso di Mosca. Si era concluso con una dichiarazione congiunta. Al regime comunista cubano era stata riconosciuta una contropartita, che si era concretizzata nel silenzio sugli oppositori cattolici incarcerati all’Avana. In quell’occasione, Parolin era già stato scavalcato e la distanza con il Pontefice non aveva fatto che crescere, fino a far salire le quotazioni del sostituto della segreteria di Stato, il vescovo venezuelano Edgar Peña Parra.
Eppure, sotto Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, Parolin aveva affrontato i dossier più spinosi, a partire dal Medio Oriente fino all’Asia, ottenendo che i vescovi vietnamiti siano nominati dalla Santa Sede con l’exequatur del governo, mentre l’accordo “provvisorio” con la Cina del 2018 - che rimane segreto - viene giudicato molto meno conveniente per la libertà religiosa dei 12 milioni di cattolici, divisi fra la Chiesa sotterranea, che riconosce il Pontefice come Pastore della Chiesa Universale e chi professa obbedienza al Partito comunista Cinese, attraverso l’Associazione Patriottica Cattolica. È Pechino a nominare i vescovi in questo caso. E alla Santa Sede non resta che accettare la decisione. Prima del Conclave, dagli Stati Uniti era giunta una denuncia circostanziata: il Vaticano ha riconosciuto ben otto pastori scelti dalla “Chiesa” Patriottica. E il cardinale emerito di Hong Kong Joseph Zen, più volte incarcerato per la sua fedeltà a Roma, era pronto a prendere la parola nelle congregazioni generali dopo aver celebrato la messa sulla tomba di Papa Benedetto XVI, per rivelare altri dettagli imbarazzanti.
Non è che il cardinale Parolin non avesse capito la situazione. Le priorità della sua agenda le aveva esplicitate alle associazioni del laicato cattolico “Sui Tetti”, in una lectio magistralis del 2022. Le persecuzioni contro i cristiani nel mondo le aveva ben presenti, da quelle cruente dell’Asia e dell’Africa fino all’ostilità occidentale, mascherata da “muro di separazione”. Una laicità «autentica», spiegava «garantisce il legittimo esercizio di un altrettanto autentica libertà religiosa e che traduce dal punto di vista dello Stato quello che il Concilio Vaticano II ha espresso dal punto di vista della Chiesa Cattolica». Per molto tempo, invece, «il principio di laicità è divenuto sinonimo di una valutazione negativa del fenomeno religioso, guardato con sospetto a fronte della rivendicazione di una rigida neutralità, ma meglio sarebbe dire indifferenza, religiosa nello spazio pubblico». Secondo quel principio invocato da un paio di secoli come libertà dall’oscurantismo, «la religione e la professione di fede sono ancora consentite, ma solo ed esclusivamente nell’ambito privato, senza alcun diritto di cittadinanza nell’ambito della sfera pubblica».
È vero anche che prima di ricevere la berretta rossa Parolin non aveva mai governato una diocesi, perché ha seguito la carriera diplomatica, e non ha dunque un’esperienza pastorale. Ma non è che gli mancasse il curriculum, iniziato nel 1986 a 41 anni - presso la rappresentanza pontificia in Nigeria e proseguito in Messico fino al 1992, finché rientra a Roma, alla Terza Loggia, e per diciassette anni lavora nella Sezione per i Rapporti con gli Stati, diventandone poi Sottosegretario fra il 2002 e il 2009, quando viene nominato arcivescovo titolare di Acquapendente e nunzio apostolico in Venezuela. Finché, nell’agosto 2013, Sua Santità Papa Francesco, per sostituire il cardinal Tarcisio Bertone, lo sceglie come Segretario di Stato e nel 2014 lo crea cardinale.
Nel suo paese natale, Schiavon in provincia di Vicenza, dove è nato nel 1955, ci speravano e stavano preparando i festeggiamenti. Ora si dovranno accontentare. Il parroco don Luciano Attorni si consola: «Così sarà più facile averlo più spesso qui da noi. Anziché il Papa aspetteremo don Piero, che sa che lo aspettiamo da almeno due anni».