Garlasco, fuochi d'artificio ed effetto-bengala: dove la giustizia ha fallito

I continui colpi di scena dell'inchiesta sono la conferma di un sistema giudiziario che non va e deve essere riformato
di Daniele Capezzonevenerdì 30 maggio 2025
Garlasco, fuochi d'artificio ed effetto-bengala: dove la giustizia ha fallito
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Quello che Libero aveva da dire sul caso Garlasco l’ha scritto a più riprese all’epoca, l’ha ripetuto – spesso del tutto controcorrente – anno dopo anno, ed è tornato a ribadirlo limpidamente nelle ultime settimane. Sintetizzo brutalmente: no alle condanne basate solo su elementi indiziari; no al rodeo della giustizia-spettacolo; no ai teoremi dei quali si cerchi solo a posteriori una dimostrazione (quasi piegando i fatti alle “esigenze” delle mutevoli tesi accusatorie); no alla guerra tra procure (o nelle procure) sulla pelle degli indagati.

E anche un gigantesco sì alla necessità di non trascurare l’aspetto drammaticamente politico di tutta questa vicenda: l’oggettiva sconfitta della giustizia in mezzo a questo grande caos; il tema dimenticato della responsabilità civile dei magistrati; l’atto di civiltà che sarebbe rappresentato dal rendere inappellabili da parte dell’accusa le sentenze di assoluzione.

Ecco: è doloroso sottolinearlo, ma le cronache di queste settimane rappresentano una sconfortante conferma dei nostri peggiori timori. Sarà il caso (non credo); sarà la commistione e il rapporto di fatto tra inquirenti e informazione (ipotesi decisamente più probabile): ma il punto è che ogni tre-quattro giorni, al più tardi ogni settimana, il pubblico è chiamato ad assistere all’equivalente del lancio di un bengala.

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Sì, proprio così: un razzo pirotecnico, un fuoco d’artificio, una cosa – luminosissima e veloce – che cattura la nostra attenzione, costringe il nostro sguardo all’inseguimento, ci distrae ovviamente da qualunque altra riflessione, salvo poi svanire nel buio, nella notte, nel nulla. Ricapitolare è perfino imbarazzante. Vogliamo parlare del martello a coda di rondine? O degli altri più o meno fantomatici ritrovamenti nel canale? O del celebre attizzatoio (che però – informa la famiglia Poggi – sarebbe sempre rimasto al suo posto)?

Tutti bengala, appunto: lanciati nell’aria per sfavillare in tv e sui giornali, con la consueta nenia ipnotica sulla «compatibilità», salvo poi venire dimenticati e sepolti. O vogliamo tornare al messaggino di una delle gemelle Cappa su «Stasi incastrato»? O ai supertestimoni che spuntano come funghi (con il piccolo dettaglio che i presunti testimoni oculari sono realisticamente tutti morti)? O all’“impronta 33”, sulla quale è perfino difficile capire quali ulteriori accertamenti attendibili possano essere effettuati con successo? Si dirà che siamo ridotti a una società-Snapchat, il vecchio social network che genera contenuti, foto, immagini, destinati però a sparire e ad autodistruggersi dopo pochi secondi: un’onda improvvisa di attenzione, e poi di nuovo il buio. Tecnica ormai utilizzata da tutte le app di messaggistica: puoi inviare e poi far sparire quasi tutto.

Piccolo dettaglio: in questo modo, però, siamo già dentro una trappola di emozioni superficiali, come se tutto fosse un messaggino da scambiare o – su un altro piano – una serie da guardare su Netflix. Ma la giustizia è un’altra cosa, o almeno dovrebbe esserlo: perché il sangue delle vittime è reale, ed è altrettanto reale la vita massacrata di un innocente condannato, odi una o più persone variamente messe in mezzo, buttate nel tritacarne, letteralmente massacrate nei loro rapporti, nella loro dignità e reputazione.

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Siamo sicuri che sia tutto “normale”? Che possiamo permetterci il lusso di continuare così? Direi di no. Vale – in generale – per il nostro modo di vivere: sarebbe l’ora di riguadagnare il respiro di una elaborazione più profonda, magari più dolorosa, ma capace di renderci migliori, meno superficiali, meno distratti in mezzo a tanto rumore. Ma vale – ancora di più – per quella cosa chiamata “giustizia”. Da dove cominciare? Questo è facile dirlo: proviamo a chiederci come ci sentiremmo se fossimo noi – ognuno di noi – i soggetti scaraventati in prima pagina o sugli schermi televisivi come presunti colpevoli. Dovremmo ripeterlo come un esercizio: «Questa giustizia può colpire anche te», o - più chiaramente ancora «Questa giustizia può colpire anche me». Scandendo questa piccola frase, tutto ci apparirà molto più chiaro, credo.

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