Simonetta Cesaroni, 21 anni ancora da compiere, è stata assassinata il 7 agosto di 35 anni fa nell’ufficio dove aveva iniziato a lavorare part time come addetta alla contabilità dal 19 giugno 1990. Ad ucciderla, 29 coltellate inferte con un’arma mai ritrovata. Sul suo corpo, parzialmente denudato, gli investigatori contarono 30 ferite. I litri di sangue persi furono tre. Sono questi, insieme al luogo in cui fu ritrovato il corpo della ragazza – gli uffici del comitato regionale del Lazio dell’Associazione italiana alberghi della gioventù, al terzo piano di via Carlo Poma, 2, nel quartiere Delle Vittorie di Roma – gli unici punti fermi del delitto per il quale il Gip del tribunale della Capitale, Giulia Arcieri, il 19 dicembre 2024 ha chiesto nuove indagini respingendo la richiesta di archiviazione presentata dalla Procura, dove dal marzo 2022 è pendente un nuovo fascicolo a carico di ignoti. Richiesta di archiviazione alla quale si era opposta la famiglia Cesaroni. In quelle 55 pagine, il giudice demolisce 35 annidi indagini nel corso dei quali sono finiti sul banco degli imputati, in successione, il portiere dello stabile, Pietrino Vanacore; Federico Valle, figlio dell’avvocato Cesare, che aveva lo studio in quel palazzo; e l’ex fidanzato di Simonetta, Raniero Busco. Di più: Arcieri suggerisce dove, per la prima volta, bisognerebbe guardare. Ovvero all’interno di quelle stanze dove Simonetta fu ritrovata cadavere.
Tra i colleghi con i quali Cesaroni lavorava un paio di pomeriggi alla settimana, il martedì e il giovedì. Spunti investigativi già contenuti in un dattiloscritto nel 1996 generosamente messo a disposizione del pm in quel momento titolare delle indagini, Settembrino Nebbioso, da un giornalista, Gian Paolo Pelizzaro, che si era buttato anima e corpo sul caso. “L’intrigo. La strana morte di Simonetta Cesaroni” era il titolo dell’elaborato, corredato da un “dizionario dei misteri” con tutti i protagonisti della vicenda. Adesso quel documento, mai pubblicato, costituisce l’ossatura di un volume – “L’intrigo di via Poma. L’omicidio di Simonetta Cesaroni e il dattiloscritto perduto”, Baldini+Castoldi, pp. 602, euro 23,00 – scritto a quattro mani dallo stesso Pelizzaro con Giacomo Galanti, giornalista di Repubblica che al caso ha dedicato un podcast (“Le ombre di via Poma”) e un documentario di successo per la Rai (“Via Poma, un mistero italiano”). È stato proprio Galanti, nelle ricerche propedeutiche ai suoi lavori, a recuperare tra i faldoni giudiziari il documento del collega. Il libro è un vademecum prezioso per orientarsi all’interno di un giallo diventato un rompicapo, dove con il passare degli anni è sempre più forte la puzza dei depistaggi che fin dall’inizio hanno inquinato le indagini e le relative inchieste. Un caso su tutti: la “provvidenziale” emersione, dal nulla, del “supertestimone” Roland Voller una manciata di giorni dopo la memoria depositata in procura, il 6 dicembre 1991, dal papà di Simonetta, Claudio, che puntava l’indice sull’ufficio in cui lavorava la figlia. «Parliamoci chiaro. Non è che quel giorno tutta Roma sapeva che Simonetta doveva andare a lavorare quel pomeriggio», ricordava non a caso a Galanti lo storico avvocato della famiglia Cesaroni, Lucio Molinaro. Invece il 18 dicembre la comparsa sulla scena di Voller - «un informatore della polizia dal passato piuttosto equivoco», lo definisce la commissione Antimafia nella relazione finale della scorsa legislatura - orientò l’azione dei magistrati verso Valle, che però sarà prosciolto il 16 giugno 1993. Il volume è arricchito, nella seconda parte, da un’ampia appendice con mappe, foto e documenti. Centrale la riproduzione dei “fogli firma” con i quali i dipendenti certificavano la loro presenza nei giorni di lavoro. E qui c’è un colpo di scena relativo al giorno del delitto, dove risulta che furono in due a prestare servizio: Maria Luisa Sibilia in De Risi e Giuseppina “Giusi” Faustini. Ma mentre la prima indicò l’orario di uscita, le 15,00, la seconda non lo segnò. Circostanza che indusse la procura, fin dal 2003, a ritenere che la donna potesse «essere rimasta per un recupero pomeridiano» proprio il martedì in cui Simonetta fu assassinata. Del resto Faustini era solita trattenersi in ufficio due pomeriggi a settimana: il martedì, appunto, e il giovedì. Anche se agli investigatori, dopo l’omicidio, disse che il suo turno di recupero era di mercoledì e che lei, Cesaroni, non l’aveva mai vista né conosciuta. Proprio quel “foglio firma”, con il testimone che potrebbe aver visto l’assassino in compagnia di Simonetta, è uno dei tanti misteri del caso: gli originali comprendenti il periodo dell’omicidio – dal 10 luglio al 13 novembre 1990 - sono stati fatti sparire, ma una copia è stata ritrovata tra le carte del padre di Simonetta, che ne era in possesso fin dal 1991 grazie a un’altra collega della figlia (Luigina Berrettini), nel 2024. Nota bene: anche il giallo del “turno di recupero pomeridiano” era stato anticipato nel dattiloscritto di Pelizzaro, che raccolse le confidenze di Berrettini.
Adesso la testimonianza di Faustini che gli stessi pm ritennero mendace nel 2003, suffragata dal registro delle presenze ritrovato è destinata a costituire la base di partenza delle nuove indagini al pari degli intrecci tra i vertici dell’Associazione e apparati dell’intelligence. Il volume evidenzia, carte alla mano, tutte le connessioni tra settori – e interessi – degli 007 e dirigenti degli Ostelli. Un potenziale «bacino di informazioni», a detta dei pm Roberto Cavallone e Ilaria Calò, al quale all’epoca si sovrappose la vicinanza, grazie alla parentela, tra Vito Di Cesare, segretario nazionale dell’Aiag tra il 1987 e il 1990, e l’allora direttore del Sisde Riccardo Malpica, di cui Di Cesare sposò la sorella Bianca Maria. Il sospetto del gip Arcieri, oltre tre decenni dopo, è che questa commistione opaca possa aver condizionato- peggio: inquinato - le indagini.
Un capitolo a parte lo merita colui che il 7 agosto 1990 era il datore di lavoro di Simonetta: l’avvocato Francesco Caracciolo di Sarno, oggi deceduto, all’epoca direttore del Comitato regionale dell’Aiag. Nel libro sono ricostruite, attraverso documenti e atti giudiziari, due vicende inquietanti che lo riguardano. La prima: un appunto dell’11 gennaio 1992 nel quale l’allora commissario Carmine Belfiore, ora vicecapo vicario della Polizia, riferiva particolari tutt’altro che commendevoli sul dirigente degli Ostelli, «noto per la dubbia moralità e le reiterate molestie arrecate a giovani ragazze». Nell’appunto diretto alla Digos, poi, Belfiore riferiva di alcune testimonianze secondo cui Caracciolo sarebbe stato visto, «pressappoco nell’ora riportata dai media come quella presunta dell’omicidio», rientrare presso la propria abitazione – in un edificio attiguo a quello di via Poma - «affannato e con un pacco mal avvolto». La seconda vicenda chiama in causa il fattore che curava le sue proprietà nella tenuta di Tarano, in provincia di Rieti, Mario Macinati. L’uomo rivelò che la sera del 7 agosto, quando ancora nessuno sapeva del ritrovamento del corpo di Simonetta, ricevette a casa due telefonate nelle quali qualcuno che si era qualificato come “degli Ostelli” lo pregava di raggiungere al più presto il suo principale, che nella fattoria non aveva il telefono, per riferirgli di richiamare con urgenza Roma. Caracciolo di Sarno non è mai stato sfiorato dalle indagini.